Ad could not be loaded.

Urban Talks w/ Alai-K

Una rubrica per conversare con artisti da tutto il mondo, espandendo il nostro sguardo urbano. In questa quinta puntata si parla di Mombasa, Kenya

Written by Giulio Pecci il 11 October 2023
Aggiornato il 15 December 2023

Sono affascinato dalle persone che vivono tre o quattro vite, continuando a proiettarsi in avanti senza sforzo apparente. Scivolano tra le maglie della vita senza perdere tempo a sedersi sugli allori, sopravvivendo a difficoltà enormi con la stessa forza con la quale sono capace di apprezzare tutto ciò che di buono incontrano e si costruiscono – senza dubbio le due cose sono correlate.

Alai-K (o Disco Vumbi, li usa entrambi) trasmette proprio questa sensazione. Nato a Mombasa in un quartiere complicato, ha rivoluzionato il suono del Kenya fondando la prima crew hip-hop del Paese. Trasferitosi poi a Nairobi, ha continuato a far ricerca incontrando l’elettronica che lo ha portato a trasferirsi a Berlino, ampliando una ricerca musicale intrigante che lo ha reso un eroe underground. Uno di quegli artisti di culto che mi piace definire “da Bandcamp”, ovvero fuori da logiche di streaming e promo sfiancanti tutte uguali, ma che si fa apprezzare esclusivamente per la qualità della sua arte. La musica che produce oggi, un mix di elettronica da club e ritmi dell’Est dell’Africa, cattura l’ascoltatore sia fisicamente che intellettualmente. Si balla provando a decifrare gli stimoli complessi e intriganti che scorrono dentro e fuori il corpo.

Un artista come Alai-K ci ricorda anche un’altra cosa: spesso dimentichiamo che, oltre al nostro sguardo euro/anglo centrico, il mondo è pieno di pionieri e leggende che non abbiamo mai sentito nominare, ma che emozionano milioni di persone, interi Paesi e continenti che in larga parte continuiamo ad ignorare. A dimostrazione di tutto ciò, Alai-K non ha mai suonato in Italia: lo farà per la prima volta il 13 Ottobre a Roma e il 14 Ottobre a Milano, per due dj set che promettono un viaggio senza fine. Lo abbiamo raggiunto quindi per una nuova puntata di Urban Talks: una finestra che ZERO apre sul mondo, racchiudendo sguardi e riflessioni su città e territori. Conversazioni con musicisti, dj, performer e artisti – quelli bravi veramente, che non manchiamo mai di segnalarvi quando passano dalle nostre parti – per riflettere insieme su passato, presente e futuro delle nostre metropoli, sul concetto stesso di città e su come la dimensione urbana finisca per legarsi indissolubilmente ai diversi percorsi disciplinari.

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Alai K Ukoo Flani (@disco_vumbi)

Dove sei nato e dove vivi oggi?

Sono nato in Kenya, a Mombasa. Sono cresciuto lì e ora vivo a Berlino. Nel mezzo ho anche vissuto a Nairobi e viaggiato molto tra Africa dell’Est ed Europa.

Prima ancora della musica: pensi che le città in cui sei cresciuto ti abbiano in qualche modo influenzato come persona?

Sai, tantissimi musicisti e artisti vengono da Mombasa. Però è una città che basa la propria economia sul turismo e sull’iniziativa personale. Tra i primi anni Ottanta, forse fino addirittura ai primi Duemila, la situazione era ancora buona: c’erano diversi locali, cose che succedevano. Poi c’è stato un grande passaggio di consegne con Nairobi. Si è spostato tutto lì, per un periodo ho fatto il pendolare, ma alla fine mi ci sono trasferito.

Quando e come hai iniziato a suonare?

La musica fa parte della mia famiglia, è nel nostro sangue. Mio padre è stato un bravissimo percussionista, la mia bisnonna un’importante cantante folk, ha scritto molte canzoni della tradizione swahili. Insomma, fa parte di chi siamo, anche se vengo da una famiglia estremamente musulmana per cui mio padre a un certo punto, quando ero molto piccolo, ha smesso di suonare. Però nella tradizione musulmana c’è tantissimo canto e quello l’ho imparato da subito; anche lo stare davanti a un “pubblico”, fin da giovanissimo, predicando, leggendo. Sono stato subito abituato al palco in qualche modo, anche se era tutto legato alla religione. Poi, nel 1993, ho iniziato ad ascoltare hip-hop e due anni dopo con altre due persone abbiamo fondato gli Ukoo Flani, il primo gruppo hip-hop del Kenya.

Dei veri e propri pionieri!

Sì esatto. Quell’esperienza è stata anche quella che mi ha fatto decidere di fare il musicista a tempo pieno, mi ha fatto capire che sarebbe stata la mia vita. Rappavo, cantavo, non suonavo strumenti ma riuscivo a scrivere canzoni. Quando sono andato a Nairobi mi si è aperta la mente, ho incontrato persone diverse e iniziato a sperimentare con strumenti. Oggi sono molto bravo sia con la kalimba che con lo xilofono, oltre che, ovviamente, con la voce. . Quando ho iniziato a maneggiare gli strumenti ho anche iniziato ad allontanarmi dal rap, abbracciando maggiormente le musiche tradizionali. A Nairobi ho anche suonato in un gruppo come cantante: era più un lavoro regolare, anche pagato bene, ma con musicisti da studio, non un vero e proprio progetto artistico. Non mi soddisfaceva. In quel momento è arrivata una collaborazione con il Goethe-Institut di Berlino che mi ha permesso di esplorare anche il mondo dell’elettronica, sia da solo che con il gruppo hip-hop, con il quale, tra l’altro, abbiamo girato un documentario sulla gentrificazione. In ogni caso, quella è stata la scintilla verso la musica elettronica: ascoltare techno o house mi riportava alla musica tradizionale del Kenya, sentivo un’affinità con le musiche tribali del mio Paese – quasi come fossero dei canti, degli inni.

Hai citato un documentario sulla gentrificazione in Kenya, puoi parlarmene un po’?

Tramite un programma del Goethe-Institute abbiamo inventato un format chiamato “Aban Mira”, per coltivare il talento dei giovani sul territorio. Prendevamo soldi da istituzioni per organizzare quattro o cinque eventi l’anno, uno showcase di artisti underground. Siamo partiti da Nairobi, ma, essendo tutti noi di Mombasa, a un certo punto abbiamo deciso di riportarlo lì. Questo perché, nel frattempo, a Mombasa c’era questo posto chiamato Maskani, dove le persone di tutte le età potevano incontrarsi a tutte le ore, solo per parlare, bersi una cosa o fumare. Questo quartiere a un certo punto è stato gentrificato: i giovani e gli artisti sono stati buttati fuori da investimenti che hanno alzato i prezzi di tutto. Quindi, all’improvviso, non avevamo più un luogo dove incontrarci. Il documentario prende spunto da tutto questo e infatti si chiama “Maskani”: affrontiamo il problema degli spazi pubblici a Mombasa, delle persone buttate fuori dai ricchi. Da lì abbiamo fatto anche degli speciali su Nairobi e Berlino.

Visto che siete stati tra i primi, come è stato accolto il vostro gruppo hip-hop quando siete emersi?

Ascoltavamo tantissimo rap americano ovviamente: eravamo solo teenager che volevano andare a fare festa nei club. A Mombasa c’era questo posto chiamato Florida che tutte le domeniche ospitava sfilate di moda o eventi musicali. Insomma, era un posto dove i giovani potevano andare a rimorchiare [ndr. ride]. Lì abbiamo iniziato a farci le ossa e piano piano la scena è cresciuta in tutto il Kenya. Sei mesi dopo aver iniziato noi a Mombasa, a Nairobi sono nati i Kalamashaka altri pionieri assoluti del genere. Allo stesso tempo era difficile, perché a Mombasa non c’erano studi di registrazione quindi dovevamo inventarci di tutto per registrare. Alla fine degli anni Novanta però siamo anche riusciti a incidere il nostro disco.

È cambiata la scena oggi tra Mombasa e Nairobi? Se dovessi arrivare domani, dove posso andare ad ascoltare musica?

Ci sono tanti posti. La scena musicale e quella dei club era grande negli anni Novanta. A Mombasa avevamo Mamba e Temba Disco, due dei più grandi club del Kenya. Insomma, era una cultura che faceva veramente parte della città e a quel tempo era influente in tutto il Paese. Nonostante poi fosse una città musulmana, non c’era grande controllo o imposizioni, anzi. Tutti i weekend trovavi musica suonata in giro. Non c’era una tradizione di musica registrata, non giravano tanti cd o altre cose, ma dal vivo potevi ascoltare di tutto, in posti di ogni tipo. A Nairobi c’è stato il processo contrario: prima c’erano piccoli club sparsi, ora la scena invece è enorme, ci sono addirittura dei festival. In città hanno iniziato anche ad arrivare producer dall’estero con i quali ho iniziato a collaborare. Negli ultimi tre-quattro anni la musica elettronica è molto più presente in Kenya.

Mi dicevi che sei cresciuto in una famiglia molto religiosa. Mi chiedo come coesistano a Mombasa e in Kenya questi due mondi. Secondo gli stereotipi quello musicale è un ambiente estremamente libero e caotico, mentre quello religioso può essere rigido e conservatore.

Mombasa è una città musulmana, quindi, ovviamente, i musulmani hanno più potere di chiunque altro. Ci sono stati dei momenti in cui la situazione stava sfuggendo di mano, diventando abbastanza sfrenata: si è arrivati alla chiusura di alcuni luoghi. Oggi in realtà non è che possano o facciano chissà che, ma sicuramente hanno ancora voce in capitolo sulla città e sull’industria dell’intrattenimento. A Nairobi ci sono più cattolici e anche atei, quindi lì non succede.

Per te a livello personale crescendo è stato difficile trovare un equilibrio fra le due cose?

Non ho permesso che avesse un effetto su di me. Anche perché all’epoca suonavo e mi esibivo principalmente per la mia famiglia, ed ero molto bravo a farlo, nessuno aveva un problema. Poi, crescendo, ho voluto sperimentare altre cose, esplorare, anche se si opponevano. Magari li facevo parlare, ma poi comunque finivo per uscire a fare le mie cose. Ci sono state un po’ di difficoltà generali, ma in realtà ho sempre avuto il supporto di mia madre nell’intraprendere la carriera musicale. Per dirti, il primo brano che ho scritto aveva delle liriche che appartenevano a una canzone scritta da mia nonna: me lo cantava mia madre raccontandomi tutto il contesto di come e perché veniva eseguito. Quando ho detto che nella vita volevo fare musica la risposta di mia madre è stata “beh, non sei l’unico in famiglia”. È una tradizione che va avanti da generazioni.

In che quartiere sei cresciuto a Mombasa? Me ne parli un po’?

Il quartiere in cui sono cresciuto si chiama Magongo e ha dato i natali a un sacco di musicisti. Soprattutto giovani, anche oggi è forse il quartiere principale dal quale escono i rapper. Questo perché è un quartiere che ha avuto sempre una grande influenza sul linguaggio: c’è lo swahili ovviamente, ma accanto a c’è la lingua “street”, quella che si parla per strada, e Magongo è sempre stato il quartiere che faceva diventare popolare il nuovo “lingo”. Nello specifico poi, l’area in cui sono cresciuto era parecchio dura, c’erano un sacco di criminali, girava tantissima eroina. Tante persone che ho conosciuto ne sono diventate dipendenti o si sono suicidate, o ancora morte ammazzate per strada.

Wow…

Sì, Magongo è uno dei posti più difficili in cui crescere in Kenya. In un certo senso hai solo due scelte: o abbracci la via musulmana in modo rigoroso, oppure, se decidi di vivere la strada ,devi essere veramente forte. Sia nel senso che devi essere capace di combattere, di difenderti, ma anche avere l’intelligenza e la capacità di saper dire no alle droghe ad esempio. Mio padre è morto quando avevo otto anni, ma era un punto di riferimento del quartiere, conosceva tutti, anche i criminali e i poco di buono lo cercavano per consigli. Ho avuto il vantaggio di crescere in un posto durissimo senza che mi succedesse nulla. Altra fortuna è stata crescere nella casa di mia nonna, con i miei zii. Ho imparato tante cose da giovanissimo per sopravvivere, i miei zii e i loro amici ci sfidavano e ci facevano lottare con altri ragazzini. Capitava che per strada fermassero un altro ragazzino istigandoci a fare a botte tra di noi – se non lo facevo erano loro a suonarmele. Si diceva proprio che nel quartiere non si dovevano crescere ragazzini deboli: tutti dovevano essere forti. E lo sono diventato. Amo molto Magongo, ho imparato tantissimo.

Pazzesco… E invece ora vivi a Berlino, un bel salto. Pioniere dell’hip-hop e della musica elettronica in Kenya, cresciuto in un quartiere così complesso… Com’è la vita berlinese?

Mi sono trasferito a Berlino perché era una cosa che volevo fortemente, non è stato un caso, voglio veramente essere qui. Sicuramente è un passaggio dovuto anche all’innamoramento con la musica elettronica. Qui poi mi sento più libero: posso fumarmi una canna camminando ovunque e nessuno mi viene a rompere le scatole. Vado in club di ogni tipologia, succedono tantissime cose e ho sentito che potevano far crescere anche la mia musica. Prima di arrivare a Berlino ho anche avuto l’idea di diventare un insegnante di Ableton e tecniche di produzione, in Kenya ho insegnato a tantissimi ragazzi giovani. Andare a Berlino faceva anche parte di questo percorso: continuare a imparare per poi riportare tutto indietro. C’è stato un momento in Kenya in cui tutti producevano afrobeats e kwaito, una cosa che mi faceva arrabbiare tantissimo. Si seguiva solo la tendenza, ogni producer faceva una copia brutta di quello che funzionava in classifica. Il Kenya è un paese leggendario: abbiamo inventato la musica soukous, all’inizio chiamata benga, i congolesi venivano qui ad impararla. Tutto è iniziato da qui, quindi perché i giovani artisti dovrebbero importare generi da altri Paesi, come Nigeria e Sudafrica, tralasciando la nostra tradizione? La mia conclusione è stata che negli studi di registrazione professionali ognuno produce la stessa cosa, senza sforzarsi. Educare i giovani ha questo obbiettivo. In questo senso ho lavorato anche molto con Nyege Nyege, registrando musica tradizionale e mescolandola con l’elettronica.

Suonerai per la prima volta in Italia, mi viene da chiederti cosa ti aspetti dalle serate a Roma e Milano.

L’unica cosa che so è che sono nato per far ballare le persone, per intrattenerle. Come ti dicevo, è da quando sono bambino che ho questo dono. Che siano live set o dj set è lo stesso: sono anche un digger, unisco la mia collezione di dischi africani vintage ai suoni elettronici di Berlino: è un mix di tante cose. Ci divertiremo insieme!