Lo svedese Magnus Wennmann ha vinto quest’anno il 1° Premio del World Press Photo per la sezione “volti” con l’immagine di Djaneta e Ibadeta, due sorelle collegate ad un sondino che permette loro di preservare le funzioni vitali. Le due giovani rom sono affette da “sindrome della rassegnazione”, una patologia che “rende in pazienti passivi, immobili, muti, incapaci di mangiare e bere, incontinenti e insensibili agli stimoli fisici”. Curiosamente la patologia, dalle ignote origini, sembra, in apparenza, colpire esclusivamente i profughi giunti in Svezia dall’ex Jugoslavia e dall’ex URSS. In realtà il morbo pare essersi diffuso in tutto il mondo occidentale, sottoposto alla visione prolungata di reportage fotogiornalistici provenienti dai disparati luoghi del mondo vessati dalle grandi atrocità sociopolitiche della contemporaneità: kamikaze iracheni, narcotrafficanti colombiani, donne rapite da miliziani in Nigeria, tribù africane violate dall’onda del consumismo, conflitti etnici in Myanmar, eccetera eccetera. Molte di queste immagini sono artisticamente notevoli, ad esempio la serie di volti femminili di Adam Ferguson, e i contesti ritratti effettivamente drammatici, commoventi, segnanti. Eppure perché a questo vasto campionario di infamie non reagiamo? Dico, ribellandoci, protestando, partendo per il Guatemala con Dibattista (scherzo), insomma, “facendo qualcosa”. A stento ci indigniamo come un tempo, il che almeno era un modo di far finta di voler agire con impegno, prima o poi. Ci limitiamo, invece, a esprimere a turno un’affettata costernazione, seguito da un informato giudizio critico sulla qualità della luce dello scatto. E poi passiamo oltre. Ecco, siamo affetti anche noi dalla sindrome da rassegnazione. Credo che non abbiamo colpe: troppe delusioni (le Ong, Obama, i nobel per la pace, l’ONU, Papa Francesco), affiancati da prolungati periodi di inerzia e una sovraesposizione alle immagini, le quali sembrano spesso aver perso spesso la loro carica sovversiva. Anche quando – meraviglia! – il serbo Goran Tomasevic, fa scattare il diaframma – con perfetta esposizione – proprio mentre il cecchino accoppa l’ennesimo disperato kamikaze. Ecco, con questo spirito dovreste approcciarvi alle foto del World Press Photo 2018: reagite alla rassegnazione e ricercate tra questi innumerevoli scatti quelli ancora capaci di indurre il punctum, come scriveva Roland Barthes, capace di risvegliare interrogativi, dubbi, agiti, insomma di significare qualcosa alla vostra coscienza. Io l’ho trovato nel miserabile abbandono morale degli yankees neonazisti ripresi dal norvegese Espen Rasmussen. Voi andate, guardate e fatemi sapere.
Scritto da Angelo Manganello