La prima volta che vidi il tarawangsa mi ci portarono Teguh e Wisnu, conosciuti come Tarawangsawelas. Era fine settembre e con una macchina ci stavamo dirigendo verso Rancakalong, in Indonesia, una piccola area composta da alcuni villaggi, palme e risaie fuori Bandung, dove pare il genere sia nato. Ci apprestavamo a prendere parte ai momenti che segnano lo ngabubur suro: l’annuale e rituale preparazione del porridge che coinvolge tutto il villaggio, atta a celebrare il ciclo della fertilità (umana, spirituale e naturale), il patto con gli antenati e la dea del riso Dewi Sri che il tarawangsa, musica a lei dedicata, sembra incantare e invitare.
Durante questo evento il tarawangsa viene suonato incessantemente da coppie di musicisti che si alternano ai due strumenti (jentreng e ngek-ngek) e trasmesso in filodiffusione in tutto il villaggio. Nelle sessioni di danza gli individui possono cadere in trance, percependo un trasporto emozionale innaturale o vivendo una possessione da parte degli antenati tramite la danza, praticamente un sistema di comunicazione tra i vivi e i morti. Il tarawangsa è un’occasione per riflettere sul proprio passato e futuro, una meditazione sulla struttura cosmologica del mondo.
Nel tempo il tarawangsa ha incrociato le trasformazioni politiche e culturali dell’Indonesia, perdendo molta della purezza iniziale. Il lato positivo, però, è che il duo è riuscito a portare questa musica fuori dai villaggi e dal contesto puramente rituale: stasera aspettatevi qualcosa di molto diverso dalla rappresentazione bidimensionale che recensioni e festival “occidentali” hanno dato di loro e del genere; piuttosto, l’output più vivo e dinamico della complessa storia centenaria di una musica tradizionale e del popolo che la ha inventata e che continua a praticarla.
Scritto da Luigi Monteanni