Questa storia comincia il 7 dicembre del 2015 a Manhattan. A pensarci bene potremmo iniziare a raccontarla già dal 19 novembre dello stesso anno, e in un attimo ritrovarci a Los Angeles sul finire del 1975 o qualche mese prima in un torrido New Mexico. Il continuo gioco di rimandi, autocitazioni e simbolismi di David Bowie non smette di essere uno dei misteri più unici e affascinanti della popular music, anche a sette anni dalla sua scomparsa, ed è difficile non avvilupparsi nel magnetismo di questa rete di connessioni per chi si è immerso nella sua musica restando ipnotizzato dai dettagli e intersezioni più o meno noti della sua storia.
Un click mentale che Bowie ci innesca pure con un musical, una capacità di mettere in moto le nostre sinapsi per cui saremo sempre grati alla più grande stella di sempre (Rolling Stone aggiungerebbe “rock”, ma non serve). Bowie non amava i musical tradizionali e “Lazarus” è letteralmente il suo ultimo lascito, un’opera di teatro musicale oscura e visionaria, minimalista nei dialoghi, andata in scena per la prima volta di fronte a un pubblico il 7 dicembre del 2015 al New York Theatre Workshop (data che coincide anche con la sua ultima “apparizione”).
Che la trama del musical e i brani del suo ultimo album avrebbero guardato indietro, a un momento cruciale della carriera del Duca Bianco, potevamo intuirlo già il 19 novembre, giorno della première di “Blackstar” (il brano). Dentro c’era “Station to Station” e di rimando “The Man Who Fell to Earth”, l’epocale pellicola sci-fi diretta da Nicolas Roeg (ispirata all’omonimo racconto del 1963 di Walter Tevis) con il più reale dei personaggi fittizi mai interpretati da Bowie, l’alieno Thomas Jerome Newton. “Lazarus”, il musical, è ambientato nei giorni nostri e ha come protagonista un Mr. Newton ormai del tutto umano, che vive in un appartamento sulla Second Avenue in preda ai deliri dell’alcolismo e ai fantasmi del passato (“Here are we, one magical movement from Kether to Malkhuth…”).
La possibilità di redenzione a cui infine approda è un’allegoria della vita di Bowie, che a quanto pare già da metà dei Duemila pensava di trasformare questa supernova di spunti e visioni in teatro musicale. La messa su copione delle sue idee e la scelta dei diciotto brani che lo attraversano è opera di Enda Walsh, e da allora il musical ha calcato i palcoscenici di Regno Unito, Germania, Olanda, Repubblica Ceca, Austria, Brasile, Danimarca e Polonia. In questi mesi “Lazarus” sta girando in Italia con la regia di Valter Malosti e il sold out pressoché fulmineo delle undici repliche all’Argentina non può che essere dato dall’energia dirompente di un genio eterno come Bowie, da un esordiente illustre come Manuel Agnelli nei panni del protagonista e dall’autorevolezza del palco che lo ospita.
Nella versione italiana, però, “Lazarus” ha almeno altri due punti di forza a portare rispetto alla visione rigorosa eppure mai allineata di Bowie, elementi non scontati che contribuiscono allo spessore e alla resa finale dell’opera. La superband che accompagna sul palco la voce degli Afterhours, infatti, pesca tra i migliori musicisti del panorama “underground” italiano. Stefano Pilia e Paolo Spaccamonti alle chitarre, Laura Agnusdei al sax tenore e baritono, Jacopo Battaglia alla batteria, Ramon Moro alla tromba e al flicorno, Amedeo Perri ai synth e alle tastiere e Giacomo “ROST” Rossetti al basso, li ascolteremo cimentarsi in 14 classici (quasi tutti con gli arrangiamenti originali), più quattro brani scritti da Bowie appositamente per lo spettacolo. E poi i video, a cura di Luca Brinchi e Daniele Spanò, due garanzie nell’utilizzo dei linguaggi multimediali. Forse uno dei rari casi in cui un artista e un’opera complessi, e la loro relativa reinterpretazione, sapranno metterci tutti d’accordo.
Giovedì 13 aprile, mercoledì 19 aprile e sabato ore 19:00, domenica e giovedì 20 aprile ore 17:00, lunedì riposo.
Scritto da Chiara Colli