In questi giorni sto parlando di romanticismo a una classe di diciassettenni del liceo Beccaria, e abbiamo pensato alle inquietudini di Friedrich, ai paesaggi di Turner e Constable ma anche al rapporto nuovo dell’uomo con il proprio corpo e la propria interiorità. Hanno ricordato loro, per averne parlato a inglese, Mary Shelley e il suo Frankenstein (1818). Così oggi gli ho raccontato lo spettacolo. Il personaggio della giovane autrice inglese è portato sul palco da Alexia Sarantopoulou, accanto al dottor Frankenstein, Silvia Calderoni, e alla creatura mostruosa, interpretata da Enrico Casagrande. La creatrice si confronta con le sue creature in un continuo rafforzamento della radice lessicale del creare, che qui fa rima con cura, autorialità e co-dipendenza. I tre attori non ci raccontano la storia (attivando la voglia di leggerla), tuttavia lo spettacolo scorre chiarissimo, narrativo poiché molto verbalizzato, fino a diventare didattico nella sua proposta finale di scoprire il mostro, accettarlo, amarlo.
La scena è costruita da tende, tra le quali i personaggi si muovono agili, usandole come vesti, cercando riparo o liberandosene, prendendole a pugni per accompagnare i suoni. Accolgono gli spettatori già sul palco, dormienti, con le loro grosse corde che scandiscono il campo visivo. Sono attrici anche loro, creano spazi, separano scene, filtrano lo sguardo, ammorbidito da fumi e luci. Mi sembrano bozzoli in cui i tre personaggi, infine molto simili , trovano luoghi intimi dove abbandonarsi a confidenze e sfoghi. “Voglio essere molti” dichiara il mostro: lui che è già molti, frutto dell’unione di corpi diversi, vuole riprodursi, essere molti per non essere solo. Dubbi, inquietudini e desideri disattesi, esplodono in scene intensamente vitali, balli con girasoli, luci gialle. Il mostro danza disordinato, vivo, positivo e speranzoso.
Sembra esserci un amore profondo tra tutti e tre i personaggi, l’atto stesso della creazione è possibilità. D’altronde il titolo è Frankenstein ma il sottotitolo A love story.
Scritto da Irene Caravita