Ritmo. Il ritmo quadrato e sferragliante di un’industria che lavora i metalli (nel cuore della Toscana). Il ritmo lento e dilatato di un fiume (di ferro). Il ritmo evocativo della memoria, la forma di una danza che si è spogliata di tutti gli orpelli per restare solo con le sue movenze più essenziali. I Tomaga sono una “anti-band”, la sezione ritmica di varie formazioni tra psych e punk più o meno note (tra cui gli Oscillation) che al posto del suono della chitarra elettrica ha messo le forme geometriche composte da beat ipnotici e silenzi. Cinque album e vari ep in cui il concetto di avanguardia è asciugato, poi espanso, sempre attualizzato. Una linea che parte dai grandi maestri del minimalismo e passa attraverso il krautrock percussivo di Can e Faust, la musica per sonorizzazioni italiana, il jazz più storto e le lezioni di “salute ed efficienza” dei This Heat, fino alla ripetizione circolare degli Stereolab. I Tomaga sono Valentina Magaletti alle percussioni (già dietro le pelli di Raime, Vanishing Twin e il nuovo progetto UUUU) e Tom Relleen all’elettronica: solo nel 2017, dopo un cv già di tutto rispetto e il recente album Shape of the Dance, hanno tirato fuori un ep tra fiati e groove acidi (Greetings From the Bitter End), l’intreccio di gamelan, xilofono, rituali e rievocazioni naturalistiche di Memory In Vivo Exposure e un ep condiviso con il padre putativo Charles Hayward. Il “classico” concerto su cui avere aspettative alte, che se poi ve lo perdete non avete il diritto di lamentarvi che a Roma non ci sia mai un cazzo da andare a sentire.
Scritto da Chiara Colli