«Io che non so se ce l’ho fatta o ce la farò mai». Mi aveva colpito Ernia con questa barra ripetuta ossessivamente all’inizio di un pezzo su “Pezzi”, la compila di The Night Skinny. In mezzo a una ventina di tracce in cui si alternavano bragging su fantomatici cash flow e iperboli assortite, la presunta umiltà di questo (fu) conscious rapper milanese brillava più dei catenozzi a diecimila carati (assieme al cubismo trap del suo “Bro” Tedua, ovviamente).
In una parentesi musicale – quella trap – in cui molta “intellighenzia” giustifica l’ostentazione radicalizzata come giusto e motivante messaggio per la Generazione Z “tradita dalla società”, stabilire una linea di demarcazione fra il kitsch e il pietismo oltranzista è una buona soluzione diplomatica – e poetica. Il secondo album di Ernia, “68”, ne è un buon esempio: capace di emancipare l’artista dall’etichetta “conscious” – tanto lusinghiera quanto stretta – e farlo spaziare fra storytelling cantautoriale (“68” è semplicemente il nome del bus che lo portava dalla periferia a Milano centro), improbabili assonanze col funk dei Flaminio Maphia, introspezioni assortite e tanto audaci quanto riusciti tributi a Kendrick Lamar.
Tutto calmierando il livello d’ostentazione a un massimo di “quella volta che ho chiamato una escort per spalmarmi il Voltaren”. Il fatto che poi i pezzi più riusciti siano quelli più “tamarri” e vicini – almeno a livello di produzioni – a un certo tipo di trap è la riprova che anche la qualità, per essere senza tempo, deve imparare a stare al passo coi tempi.
Scritto da Andrea Pagano