Benjamin Clementine sale sul palco che la luce è ancora tenue, i contorni si distinguono a fatica mentre gli applausi scemano e resta solo il silenzio. A quel punto si nota con chiarezza un solo elemento: la su capigliatura, che pare disegnata a fumetti, come fosse uscito dai Simpson. A pensarci bene, Clementine un personaggio di Springfield potrebbe – forse dovrebbe – esserlo davvero.
Nella sua cofana, talvolta arruffata e altre finemente pettinata, albergano tutti i sentimenti contrastanti della società di Matt Groening, gli stessi che la sua musica rimarca con forza. Si ritrovano l’accoglienza interessata di Apu, l’attenzione lieve di Marge, l’irruenza di Nelson, la spontaneità di Homer, la dedizione di Flanders, la curiosità di Lisa, la sottomissione del direttore Skinner, l’inventiva di Bart, la rabbia covata di nonno Abe, la follia creativa del professor Frink… C’è il giallo dei Simpson, ma manca la loro leggerezza. La musica di Clementine è la colonna sonora di una vita fatta di oscurità, dolore e desiderio di riscatto.
Del resto, non è esattamente scontato che un artista “popolare” e amato come lui abbia un’energia così destabilizzante, così piena di contrasti, esattamente come la sua esistenza – da homeless a Parigi agli show per Burberry, passando attraverso un Mercury Prize. Non è scontato che sia una voce profonda come la sua a dare spessore a un pezzo dei Gorillaz (“Hallelujah Money”, probabilmente il miglior brano su “Humanz”), che un poco più che trent’enne riesca a dare spettacolo e incantare una platea italiana intrecciando la propria esperienza personale con l’attualità più dura e cruenta. Torna a Roma dopo il sold out di due anni fa: preparatevi a un’alternanza di sorrisi e lacrime.
Scritto da Filip J Cauz