Gli Algiers sono stati l’ennesimo caso della musica “indie” attuale tra gli addetti ai lavori – ovvero chi è costretto a vivere la musica passando prima dall’impatto esterno che dall’esperienza diretta. Spesso, casi come questi sono fatti più di parole scritte che di suoni suonati, eppure qui pare differente: perché gli Algiers sono forse l’ultima band – o comunque una delle più credibili nei nostri tempi – concretamente “politica” del rock americano. Con l’accento su concreto, politico e americano. Una sorta di post-punk intriso di nero, dove il nero non è nell’oscurità ma in una tradizione soul e funk: americano, insomma. Un gospel psichedelico che sa di guerra di liberazione, di rivolta degli schiavi. Era forse dai PIL degli anni d’oro che non si vedeva un frullatore così coerente nella sua proposta. In quel frullatore il trio di Atlanta ci butta Frantz Fanon e Odetta, Morricone, MC5, Sartre e i Sonic Youth. Ciò che ne esce è un quadro cinico e utopista allo stesso tempo, carico della violenza di un occidente capitalista in cui, per usare un vecchio adagio, «Se non sei parte della soluzione, sei parte del problema», dove il rumore è solo un pezzo della risposta a un mondo frammentato da una guerra sociale strisciante. E in un’America che alla guerra permanente ci ha fatto il callo prima ancora questi tre uscissero dalla culla, gli Algiers riscoprono un portato politico drammaticamente attuale. Il loro sito e i loro video sono una raccolta meditata di proclami delle Black Panther, critiche sociali e richiami artistici e musicali. Ciò che dovrebbe essere il pop ai tempi di Black Lives Matter e di Donald Trump: parte della soluzione.
Scritto da Redazione Venezia