Voce baritonale, indole schiva, andamento marziale e ieratico, controversa fascinazione per i feticci storici. C’era da aspettarsi che Jerome Reuter venisse considerato, in maniera un po’ troppo sbrigativa, uno dei tanti adepti di quel filone neo-folk dai toni apocalittici inaugurato da Douglas Pearce coi suoi Death In June. Fatto che non renderebbe giustizia all’invidiabile afflato poetico che consente di accostarlo anche a cantautori come Brel e Cohen o al Blixa Bargeld più introverso. E non è un caso che le reference in ballo appartengano a culture e nazionalità diverse, considerando lo spiccato interesse per la geo-politica del Novecento di JeROME (che viene da una sorta di non-luogo come il Lussemburgo). Da anni l’outsider Reuter continua ad aggirarsi tra le macerie del Secolo Breve, componendo la sua Spoon River fatta di anarchici e sconfitti, reduci e dissidenti, rassegnazione e resistenza.
Ora, con un suono più aperto a contaminazioni wave e con diversi diamanti grezzi passati in sordina in questi anni, torna in Italia per fare una cosa: ricordarci l’orrore di una guerra (interiore) che non è mai finita.
Scritto da Lorenzo Giannetti