Un concerto che non si dimentica. Come si fa a far cantare il pubblico con l’hip hop? Non è semplicissimo. Amir Mohamed El Khalifa ci riesce sempre ai suoi live. Arriva da Brooklyn, ma le sue origini del Sudan sono fortissime e si sentono in tutte le note. Canticchiare è poi ancor più difficile se la band che accompagna l’artista è super jazz, di quelle che spaccano, quelle in cui il tastierista, tutto preso, si mette in piedi e inizia pure a ballare: trascina gli strumenti, che non si fermano e continuano a suonare e ballare col resto della band.

La Good Compny che è assieme a lui sul palco è tutt’altro che la solita formazione jazz che ci si aspetta. Forse la grande sorpresa del live è proprio questa. O forse quel sound un po’ afro, un po’ jazz e con tanto hip hop. È tutto un mischione di suoni che abbracciano (quasi) il gospel. Uno stile unico di linee musicali soul variegate che si appoggiano sul rap. Quel rap capace di sfornare ritornelli, e di mettere sul banco temi bollenti, che infiammano l’opinione pubblica. Il suo incredibile flow scalda sulla libertà della diversità, sull’islamofobia, sulle benedette green card americane. Del resto, il rap racconta la vita: Amir lo canta sempre.