La sintesi dell’atipica parabola musicale di Ryan Adams sta (quasi) tutta nel suo penultimo album, 1989. Una delle operazioni musicali più bizzarre che possano venirvi in mente: un chitarrista nerd, cresciuto nel North Carolina a Smiths e Hüsker Dü, che a quarant’anni e con quattordici lavori da solista alle spalle coverizza un intero disco di Taylor Swift, trasformando una macelleria pop da classifica in brani semi acustici e credibile “americana”. Una mossa da “only the brave”, con un potenziale ruffiano inestimabile ma gestita dal Nostro, sempre e comunque, con l’indole da outsider. La storia di Ryan Adams, del resto, è un susseguirsi di guizzi geniali e aspettative disattese: quando suonava nei Whiskeytown appiopparono al suo gruppo l’impegnativo titolo di “Nirvana dell’alt country”, quando sarebbe potuto diventare una rockstar si perdeva tra alcool e speedball, quando registrava dischi le etichette non glieli pubblicavano, quando un suo brano diventava manifesto della New York del Nine/Eleven lui faceva di tutto per sottrarlo a quel ruolo (magari mettendo in risalto, piuttosto, il solo al sax di un certo e allora giovanissimo Kamasi Washington). Performer notevole, ironico e poco accondiscendente, Ryan Adams torna sui palchi per presentare il suo ultimo gioiellino sull’asse Springsteen/Replacements, Prisoner – un album che riesce ad avere le radici negli anni 80 senza suonare terribilmente rétro e plasticoso. E a tal proposito: invitiamo tutti quelli che negli ultimi anni si sono esageratamente esaltati per gruppi tipo i War On Drugs a venire a sentire chi, certo classic rock americano (con grandi melodie pop), lo sa suonare davvero.
Scritto da Chiara Colli