Sulla metro 2 la fermata di Porta Genova è una delle poche a libera uscita, perché le folle notturne sono troppo dense per poterle bloccare ai tornelli. Porta Genova è sinonimo di Navigli, ma anche di Zona Tortona, dei primi successi del marketing urbano milanese e di quei saloni mostruosi in cui il ponticello verde traballava per la massa che lo scavalcava a passo di formica (e infatti l’hanno chiuso, mannaggia).
Sfondo di via Vigevano e di Corso Genova, solcato dai tram, il piazzale ebbe persino un momento di gloria rivoluzionaria quando Philopat insieme ad altri protagonisti della scena underground occupò il casotto che campeggia là in mezzo. Però è sempre stato una spianata assolata e caotica, non precisamente il posto dove si aspetta piacevolmente un amico in ritardo di mezz’ora, con la stazione abbandonata da un lato e il traffico pulsante dall’altro.
Il Comune ha scelto di farne una delle sue “piazze aperte”, questa volta sostituendo le strisce bianco-azzurre ai bolli papalini (bianco-gialli) e delimitando l’area pedonale con vasi di oleandri, rastrelliere di biciclette e panchine.
Durante la notte le panchine sono gettonate, fanno comodo, e anche ai primi tiepidi soli primaverili. Ma il sole estivo ha messo a dura prova anche i cittadini più entusiasti, e mostrato la tenuta di un progetto così povero di mezzi: qui il tactical urbanism ha senso solo se si configura come un inizio, ma il piazzale ha bisogno di alberi veri con ampie chiome, di una riforestazione non metaforica ma massiccia, o di qualche pensilina monumentale progettata sul serio, da architetti bravissimi, sul modello del Metropol Parasol di Jürgen Mayer a Siviglia, per dire.
Oppure, anche in un’ottica di maggiore sobrietà e in odio allo spirito dell’icona, si potrebbe optare per una risistemazione sempre low-cost, ma sicuramente più progettata, pensata, articolata: rendere più vivibile un punto così complesso richiede una quantità di pensiero e di volontà politica molto forte, o è meglio lasciarlo al suo caos naturale.