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La cultura nella città cannibale

Una riflessione su classe, rappresentazione e tessuto urbano all'alba di un nuovo anno

Scritto da Giulio Pecci il 14 gennaio 2025
Aggiornato il 15 gennaio 2025

Jean Francois de Troy - La lecture de Moliere

A Natale le strade di Roma facevano venire voglia di guidare. Non tanto perché svuotate dagli impegni famigliari e culinari, dalle tombolate e dalle gare di bevute con lo zio ubriacone dall’alito pesante, ma per il prezzo della benzina, che era tornato a prezzi quasi (molto quasi) umani. Un’illusione che si è subito sgretolata con l’arrivo dell’anno nuovo: prezzo della benzina di nuovo su; come quello anche sigarette e tabacco e le ormai pericolosissime bollette di gas e luce – oltre a praticamente tutto il resto.

Un anno fa, neanche una settimana nel 2024, l’Ansa faceva il punto dei consumi italiani raccogliendo gli ultimi dati Istat. Riassumendo, spendiamo di più ma consumiamo di meno. Parafrasando, le cose vanno sempre peggio, tra inflazione e tutte le emergenze globali degli ultimi anni. Dai primi report che si trovano online, sembra che il 2025 seguirà la stessa tendenza.

Musica, arte e tutto ciò che gli gira attorno, sono sempre di più un club privato.

Qualche giorno dopo, sempre un anno fa, ci pensava Resident Advisor a rincarare la dose, spostando il focus su temi cari a Zero con unarticolo intitolato “It’s definitely a harder grind’: Is electronic music becoming inaccessible to the working classes?”, basato su un nuovo studio inglese sulla mobilità di classe. Un’analisi che da una parte inventa l’acqua calda (è dall’alba dei tempi che le professioni “artistiche” sono accessibili prevalentemente a chi già in partenza possiede capitali da investire) ma che turba comunque per la brutalità delle cifre: “la percentuale di persone provenienti da contesti della ‘working class’ che operano nelle industrie creative si è più che dimezzata dagli anni Settanta, passando dal 16,4% a solo il 7,9%.”

Questi due esempi possono sembrare scollegati. Non sono in diretta comunicazione effettivamente, ma sottolineano comunque che ci stiamo dirigendo verso una nuova recessione e che la forbice tra classi sociali continua ad allargarsi. D’altronde, in Italia non sembrano esistere studi comparabili a quello dell’articolo di Resident Advisor, che intrecciano esplicitamente mobilità di classe e “professioni artistiche”. Questo non impedisce comunque di provare a ragionare partendo dai vari report a nostra disposizione: abitudini di spesa, generale andamento dell’economia; semplici dati di fatto o meglio ancora un’osservazione attenta del mondo che ci circonda. Perché chiaramente a far paura non sono tanto i numeri, quanto la realtà di cui si fanno espressione e che portano, in Italia e a Roma, alle stesse identiche conclusioni dell’articolo di RA: musica, arte e tutto ciò che gli gira attorno sono sempre di più un club privato – privato non è un termine usato a caso.

Dai primi anni duemila a oggi c’è stata un’accelerazione evidente nell’omogeneizzazione della scena musicale e artistica, dominata da persone con una simile estrazione sociale medio-alto borghese. Insomma, se già prima poche persone potevano permettersi di intraprendere una carriera di un certo tipo, ora è oggettivamente un miraggio per la stragrande maggioranza. L’Italia e Roma non fanno eccezione, anzi. Quali le “cause”? Diverse, e nessuna ermetica, anzi, tutte in comunicazione e in un rapporto tra loro tipo gioco del domino.

Costi e chiusure

Prendendo come lasso di tempo in esame gli ultimi venticinque anni e come zona geografica Roma, in modo epidermico viene subito in mente il problema delle chiusure – sempre discusso e monitorato da Zero. Tutti i club, locali e punti di aggregazione che rendevano accessibile musica e cultura in modo quasi trasversale, a prezzi umani, sono per lo più spariti e mai stati sostituiti. Oggi è un dato oggettivo che – al di là di sparuti club che nel frattempo hanno, come naturale, perso lucidità – le serate – come tutto il resto, torniamo all’Ansa – costano di più. Spesso sono diventate esclusiva di chi può permettersi di investire, in media, una trentina di euro a sera, tra biglietto e un paio di birre.

Una tendenza che viene confermata dal rapporto Confcommercio appena uscito, riferito al 2024. Carlo Fontana, il presidente di Impresa Cultura Italia-Confcommercio lo ha commentato affermando che “il divario tra chi può permettersi di spendere cultura e chi non ha questa possibilità continua ad ampliarsi”. Difatti, se si legge il report integrale, alla domanda “Quali sono i fattori che limitano la sua partecipazione agli eventi culturali indicati in precedenza?” la percentuale più alta se la prendono proprio i costi. C’è un’altra tendenza interessante espressa dal report: quella che indica come il campione di intervistati valuti positivamente l’offerta culturale della propria città, ma con un netto calo di apprezzamento rispetto all’anno precedente. La situazione ormai è così paradossale e di dominio pubblico che il 2024 è l’anno in cui oltre ai balletti e agli sketch demenziali, su TikTok è comparsa la “no-buy challenge”. La risposta Gen Z all’aumento vertiginoso del costo della vita. Insomma, parlando terra terra: se le persone rinunciano a beni di prima necessità, figuriamoci a un concerto.

Cosa viene meno dunque, con la scomparsa di luoghi accessibili quasi a tutti? In primis la possibilità fondamentale di “inciampare” in situazioni. Se oggi chiediamo ad adolescenti e neo-ventenni di ceto medio-basso (cosa che ho fatto il più possibile nei mesi in cui questo articolo mi ronzava in testa), difficilmente tra le abitudini troviamo quella di frequentare luoghi di aggregazione per il gusto di farlo, incontrando musica dal vivo o stimoli culturali per caso. È definitivamente scomparsa l’abitudine al trovare, semplicemente uscendo di casa, una “situazione” stimolante, in cui ascoltare, vedere, parlare.

Ormai ogni uscita, che non sia bere a bassissimo costo, è un vero e proprio investimento e ovviamente si cerca di farlo a botta sicura. Il risultato è: ogni tanto spendo un tot di euro per un artista che so già che mi piace e che ho voglia di vedere. Il gusto quindi è formato tutto prima, dagli algoritmi delle app social o, quando va bene, da quelli dei servizi di streaming musicali. Non c’è quasi mai un’esperienza empirica di situazioni o generi nuovi, sperimentati sulla propria pelle. Di conseguenza non c’è più l’abitudine alla condivisione degli spazi, da cui deriva anche un’etichetta di pubblico degenerata in modo clamoroso. L’associazionismo scompare, con l’eccezione di quello online che, però, negli ultimi anni, più di una volta si è dimostrato fragile e pieno di contraddizioni una volta trasportato nella realtà in carne ed ossa.

Questo per quanto riguarda gli spazi “legali”. Sì perché in tempi recenti, e in particolare a Roma, quando è mancata l’offerta giusta il vuoto è stato colmato da esperienze di aggregazione spontanea, occupazioni, centri sociali, insomma: la “controcultura”. Questi luoghi negli ultimi vent’anni sono stati vittima di una repressione feroce e costante da parte di ogni governo avvicendatosi, di ogni bandiera e di ogni colore. Attacchi sistematizzati che hanno fatto perdere smalto, indebolendo chi li ha animati con un coraggio a volte quasi irrazionale. D’altro canto molte di queste esperienze sono rimaste impantanate in meccanismi culturali che non hanno nessuna forza nell’attrarre i sedicenni di oggi. Sembrano più avere lo scopo di continuare a cullare i sedicenni di allora, ormai splendidi quarantenni e oltre, adagiati com’è normale su dinamiche a loro familiari.

Educazione

Qualcuno potrebbe obbiettare che in questo discorso si stia mettendo il carro davanti ai buoi. Ovvero: perché aspettarsi un’educazione all’ascolto, al bello, alle vere e proprie pratiche artistiche e addirittura ai loro meccanismi tecnici, dalla volubilità dell’impresa privata. E perché aspettarselo “tardi” quando si è già arrivati alla tarda adolescenza? Perché il sistema scolastico italiano pubblico, da questo punto di vista, è inutile e dannoso.

Recentemente chiacchieravo con un ragazzo di vent’anni precisi, cresciuto in un quartiere periferico di Roma sud. Finiti a parlare dei giorni del liceo, raccontavo di come nei miei primi anni le assemblee mensili spesso si trasformassero in occasioni per suonare strumenti, organizzare piccoli concerti ed eventi. Ho incontrato lo sguardo incredulo di un ragazzo con appena otto anni meno di me, cresciuto nella mia stessa città, perfino nello stesso quadrante. Quello che gli stavo raccontando per lui era inconcepibile, non ne aveva mai fatto esperienza e non aveva mai neanche pensato alla possibilità che succedesse qualcosa del genere. “Da me una volta al massimo hanno chiamato Er Faina, non so neanche perché”. Le stesse identiche impressioni, nel tempo, me le ha raccontate mio fratello. Qui il “caso studio” è ancora più clamoroso: ci passiamo solamente tre anni e abbiamo frequentato lo stesso liceo.

Molti degli amici con cui animavo quelle assemblee (incluso il sottoscritto) oggi svolgono una “professione creativa” o inerente a sfere culturali. Non c’è bisogno di essere fini sociologi o analisti per capire quanto quelle prime esperienze di autogestione ed esplorazione siano state cruciali, nel modellare il percorso di persone che oggi si guadagnano da vivere nell’industria culturale. Hanno permesso a ragazzine e ragazzini (che abitassero a Spinaceto o Prati) di mettersi alla prova, di scoprire che organizzare, creare e modellare esperienze fosse una cosa possibile nella vita reale. Insomma la “semplice” realizzazione di ciò che recita la costituzione italiana in materia di istruzione: l’essere “uno strumento determinante per garantire nei fatti l’uguaglianza dei cittadini, che si realizza attraverso il pieno sviluppo della persona, l’esercizio consapevole delle libertà e la partecipazione alla vita del Paese.”

Assemblee, autogestioni, occupazioni. Esperienze che avvenivano dentro le mura scolastiche ma che in qualche modo erano una reazione alle stesse: a programmi vetusti, insegnanti incapaci e incattiviti. Eccezion fatta per qualche specifico educatore illuminato che si può incontrare lungo il cammino, l’istruzione pubblica italiana è del tutto inutile per la preparazione alle professioni culturali. Il sistema scolastico insegna (neanche sempre) a studiare, in astratto.

L’unica applicazione logicamente remunerativa che un appassionato di musica, arte, teatro etc trova in questo approccio è quindi quella di continuare a studiare, in astratto, per sempre. Fino al momento in cui, disgustati o estenuati dalle dinamiche di potere che regnano nelle Università, si prova a fare il salto della cattedra per posizionarsi dal lato della lavagna, continuando a reiterare il circolo vizioso per l’eternità. Se ci si vuole sottrarre a questo Uroboro le vie sembrano essere solo due: accettare una condizione di totale instabilità economico-lavorativa o cambiare completamente settore e, nel migliore dei casi, rendere un hobby ciò che si è studiato e per cui ci si è formati.

Il risultato è che, guardandosi attorno, chi lavora in ambito culturale oggi è circondato per lo più da persone che hanno frequentato costosissime scuole e accademie private. Inutile citare i nomi, le conosciamo tutti e tutti conosciamo il meccanismo: per diverse migliaia di euro all’anno si viene presi e formati in modo più “tecnico” rispetto al pubblico. Soprattutto viene dato un accesso privilegiato a tirocini, conoscenze, aperitivi giusti da frequentare. La famosa “bolla” insomma.

Quando si passa definitivamente al mondo del lavoro poi la frattura diventa insanabile. Se non si ha un capitale di partenza è impossibile pensare di affrontare mesi, se non anni, di tirocinio full time pagato poche centinaia di euro al mese – quello che per lo più propone oggi il mercato del lavoro creativo. Così, seppur qualcuno è riuscito a combinare qualcosa, a rimediare i contatti, a farsi valere, a penetrare la bolla, spesso arrivato a un certo punto deve comunque mollare la presa. Se vuole continuare a pagare l’affitto e mangiare.

Rappresentazione

Il problema qui non è solo la drammaticità del precariato, l’assenza di lavoro e la mancata corrispondenza tra stipendi e costo della vita – una condizione trasversale a tutta la società del 2025. Il problema è soprattutto quello della rappresentazione. Perché l’industria culturale è quella che più di tutte modella l’immaginario di un paese, delle comunità che lo compongono. Se al suo interno viene rappresentata e ha voce una sola classe sociale, il problema è enorme. C’è un video in cui chiedono a Denzel Washington perché “Fences”, film che stava promuovendo in quel momento, avesse bisogno di un regista afroamericano. La sua risposta è stata che “non è una questione di colore, ma di cultura. Steven Spielberg ha girato Schindler’s List. Martin Scorsese ‘Goodfellas’. Probabilmente tutti e due avrebbero potuto fare un ottimo lavoro nel girare l’uno il film dell’altro; ma ci sono differenze culturali.”

Non c’è bisogno di essere la parodia di un sindacalista inglese, nella Londra della seconda rivoluzione industriale, per parlare di alcuni argomenti. E soprattutto non c’è l’obbligo di farlo. Ma ci sono delle sfumature, soprattutto quando si entra nel campo artistico, che può cogliere e tradurre in arte solo chi viene da quelle istanze. Perché le ha vissute sulla propria pelle, le conosce da dentro. Altrimenti succede che il giovane regista con più soldi per fare un film, nella storia recente del cinema italiano, dice che “ chi è cresciuto a Roma Nord ha fatto il Vietnam”.

La mancanza di rappresentazione è cugina del sonno della ragione: genera mostri.

Questo della rappresentazione è un discorso quasi dato per scontato quando si parla, ad esempio, delle tematiche di genere o delle rivendicazioni razziali. Poco quando si parla di classe. Da queste esperienze dovremmo imparare che la mancanza di rappresentazione è cugina del sonno della ragione: genera mostri. Genera rabbia, frustrazione, incomprensioni, distruzione fine a sé stessa, conflitto insanabile, depressione. In ultimo, immobilità e mancanza di aggregazione, di dialogo. Così la coalizione politica che per prima riesce a parlare alla cosiddetta “pancia” delle persone, a quel malessere e quella sensazione di impotenza, finisce per formare il governo più esplicitamente fascista dal 1943.

Musica e Roma

Tutti i report internazionali e nazionali riferiti alle vendite musicali, affermano che il 2024 è stato un anno da record: erano due decenni che non giravano così tanti soldi nell’industria musicale. Arrivati a questo punto, i romani appassionati di musica che stanno leggendo hanno iniziato a ridere da soli. Ma dove stanno ‘sti soldi? La semplice quanto scoraggiante risposta è: nelle tasche di chi già ne aveva. Il più classico tra gli schemi ponzi capitalistici.

I numeri record che fanno brillare i report sono prodotti dai giganti pop, dai loro dischi e dai loro tour: Taylor Swift e Billie Eilish come Tony Effe e Mahmood. Si ricollega al discorso sulle modalità di fruizione culturale: se devo spendere dei soldi, li spendo per un evento grande, comunitario, che so essere un investimento “sicuro”. C’è poi il discorso sullo streaming che è passato da ricavi di 1,8 miliardi di dollari nel 2014, ai 17,5 miliardi nel 2022. Quello stesso streaming sotto accusa da anni proprio da parte degli artisti, che percepiscono royalties ai limiti dell’inesistente e che, con il sempre maggior inserimento nell’equazione delle intelligenze artificiali, nel 2025 probabilmente arriverà a picchi mai visti di ricchezza dei già grandi (in testa le big three a cui è impossibile sfuggire se si vuole raggiungere un pubblico veramente mainstream: Universal Music Group, Sony Music e Warner Music Group) e povertà di tutti gli altri.

La risposta degli attori “piccoli” è anche qui collegata a un discorso affrontato in precedenza. Nelle grandi città si confezionano sempre di più esperienze culturali destinate a un segmento specifico: proprio quello dei giovani frequentatori di accademie private. Il risultato è che anche nella medio-piccola offerta si mira per lo più alla costruzione di una bolla autoriferita, umanamente e nell’offerta. Una bolla che invece di percorrere un discorso di inclusività ne ricerca consciamente uno di “esclusività” sperando, secondo psicologia inversa, di attrarre nuove leve della stessa capacità di spesa.

Milano, la città commerciale e dell’investimento privato per eccellenza, sembra ormai alla fine di questo percorso: una città cannibale, che si è divorata da sola partendo dal centro e arrivando ai margini. Roma vive ancora in un limbo tra pubblico, privato e anarchia tutta capitolina; ma questo percorso sembra essere iniziato anche qui.

Il 2025

In questo stesso periodo, l’anno scorso ci chiedevamo “in che città ci troviamo”. Tante delle domande e dei dubbi rimangono validi e senza risposte definitive. Di sicuro però alla luce di tutto quanto detto fin qui l’affermazione finale, “non vogliamo una città in cui suoni solo chi ha soldi per un pubblico che ne ha altrettanti”, inizia a bruciare fortissimo sulla pelle.

Qualche nota positiva e buon auspicio? Intanto “il gatto è fuori dal sacco sacco” come direbbero gli inglesi. Ovvero, se prima questi discorsi erano più o meno nascosti e taciuti tra le pieghe della comodità, di un sistema che in fin dei conti riusciva a sopravvivere, adesso non è più così. La prima grande scossa in questo senso l’ha data il COVID: quasi tutti hanno speso parole meravigliose di unità e di allarme. Tornata la “normalità” però allo stesso modo tutti ci siamo fiondati di nuovo nelle nostre vite, cercando di recuperare il tempo e i soldi perduti e scordando i buoni propositi.

Quella spinta post-pandemica sembra essere arrivata a un nuovo impasse e sarà difficile tornare a nascondersi dietro a un dito. Magari è l’anno buono per ripartire dalle basi: dall’educazione, dalla rappresentazione, dall’associazionismo e l’abitudine all’altro. Come mettere in pratica tutto ciò sta un po’ alla coscienza di ciascuno ma una cosa è sicura: parliamo, parliamone tutti; smettiamo di avere il terrore di dire la cosa sbagliata ogni due parole; accettiamo il confronto, anche duro; evitiamo di chiuderci in una bolla in cui siamo tutti d’accordo; lasciamo nel 2024 l’ansia di risultare un po’ ingenui e la performatività dell’intelligenza fine a sé stessa; piantiamola di mortificare chi prova a mettersi in gioco con le migliori intenzioni.