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Altre voci, nuovi miti: la 16a Quadriennale di Roma raccontata dai suoi curatori

Lo scorso 13 ottobre ha preso il via la 16a Quadriennale di Roma al Palazzo delle Esposizioni. Abbiamo voluto raccogliere lo sguardo con cui i suoi 11 curatori l'hanno vista e interpretata, attraverso altrettante brevi interviste.

Scritto da Nicola Gerundino il 18 ottobre 2016
Aggiornato il 10 gennaio 2017

Foto di OKNOstudio

A otto anni di distanza dall’ultima edizione, in questo 2016 abbiamo salutato con piacere il ritorno della Quadriennale di Roma, ospitata nella sede storica del Palazzo delle Esposizioni (dal 13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017). La novità maggiore di questa sedicesima edizione è stata la scelta dei curatori: una scelta votata alla pluralità, con undici diverse voci ad orchestrare dieci sezioni. Abbiamo così deciso di realizzare altrettante interviste utilizzando uno stesso set di domande, in modo da poter sintetizzare, a partire da questa molteplicità di visioni, un’affresco dell’arte contemporanea in italia, unico e allo stesso tempo poliedrico. Ogni settimana pubblicheremo una nuova intervista all’interno della quale troverete anche un’immagine tratta dal profilo Instagram della Quadriennale – che settimanalmente sarà affidato a ognuno dei curatori – più una playlist Spotify che vi farà da colonna sonora durante lettura e, magari, anche durante la visita della sezione corrispettiva. Ecco a il calendario delle pubblicazioni e buona lettura!

OTTOBRE
20/10 Michel D’Aurizio
26/10 Luigi Fassi

NOVEMBRE
2/11 Simone Frangi
9/11 Luca Lo Pinto
16/11 Matteo Lucchetti
23/11 Marta Papini
30/11 Cristiana Perrella

DICEMBRE
7/12 Domenico Quaranta
14/12 Denis Viva
21/12 Simone Ciglia/Luigia Lonardelli

 

foto ritratto Ciglia_Lonardelli (1)SIMONE CIGLIA, LUIGIA LONARDELLI

ZERO – Che ricordi avete delle precedenti Quadriennali?
LUIGIA: Nel 2005 ero arrivata a Roma da poco e la sede, provvisoria, della Quadriennale, la Galleria Nazionale, mi lasciò il segno di un qualcosa che non riusciva a trovare un luogo definitivo dove attuarsi, che era proprio il “fuori tema” del suo titolo. Di quella del 2008 ricordo il senso di pieno e le molte opere, che però si confondono nella mia memoria, se non per quella di Luana Perilli, Io non vorrei crepare (tutto è bene quello che non finisce mai), che ha continuato a farmi pensare per diverso tempo.
SIMONE: Anche io conservo un ricordo piuttosto indistinto della precedente edizione della Quadriennale: la quantità era certamente uno dei dati che all’epoca mi aveva maggiormente impressionato, come pure una certa mancanza di fuoco. Un errore che, a mio avviso, è stato evitato quest’anno con l’idea di presentare dieci progetti curatoriali distinti, ciascuno con una propria fisionomia.

Potete descrivere brevemente la sezione da voi curata e cosa avete voluto raccontare con essa?
Con Preferirei di no/I would prefer not to abbiamo tentato di rispondere, senza remore e con franchezza, a quella che è stata la call della Quadriennale: raccontare gli ultimi quindici anni di arte italiana. Ci siamo subito riconosciuti in un sentimento comune che vedeva nell’allontanamento dalle cose e nella sottrazione una cifra possibile che andasse al di là delle codificazioni identitarie. Il testo di Melville è diventato il filo conduttore di una ricerca su questa particolare attitudine, una postura che abbiamo identificato in diverse generazioni.

Un dettaglio dell’allestimento di "Preferirei di no/I would prefer not to". Foto OKNOstudio.
Un dettaglio dell’allestimento di “Preferirei di no/I would prefer not to”. Foto OKNOstudio.

Che opera o che artista della vostra sezione consigliereste di tenere d’occhio a un visitatore della Quadriennale? Detto, altrimenti, c’è un’opera che per voi è più esemplificativa o rappresentativa?
È difficile selezionare un lavoro, una mostra è prima di tutto un atto di amore nei confronti delle opere che si scelgono. Se dobbiamo scegliere, ci concentriamo sugli artisti più giovani, Invernomuto e Matteo Fato, che in questi anni stanno avendo un percorso di crescita interessante e che ha delle buone potenzialità. Posto che tutte le opere sono state selezionate in quanto rappresentative della nostra idea, ci sembra che il neon di Claire Fontaine – che abbiamo collocato come incipit – esprima in modo più eloquente il rifiuto bartlebiano.

A quale altra sezione della Quadriennale consigliate di prestare attenzione?
A questo punto siamo quasi arrivati alla fine della mostra e abbiamo imparato ad amare tutte le sezioni, ma ci sentiamo di consigliare di visitare la Quadriennale con la consapevolezza che ci troviamo in altri tempi e abbiamo altri miti. Quello che vedrete lo potrete sentire più o meno vicino a quello che siete, ma sarà certamente qualcosa che state vivendo, anche senza saperlo.

Sappiamo che per la Quadriennale avete preparato una playlist musicale: che musica avete ascoltato durante l’allestimento? In generale, quanto la musica ispira il vostro lavoro e come?
Abbiamo un rapporto con la musica funzionale: la utilizziamo per concentrarci, allontanarci dal resto e scrivere. La nostra playlist è come il nostro progetto: non ha un filo conduttore imperativo, ma racconta piuttosto diverse sensibilità unite da un sentimento comune di allontanamento dalle dinamiche che ci circondano.

Qual è l’artista italiano che al momento ti sta rubando più l’occhio, anche al di là di quelli presenti alla Quadriennale?
Francesco Matarrese.

Come definireste in una frase, o anche solo in una parola, l’arte contemporanea in Italia allo stato attuale?
In cerca di padri (e fratelli).

E Roma?
LUIGIA: Una bellissima donna non sempre fedele.
SIMONE: «Nave senza nocchiere in gran tempesta»

Se doveste associare un artista a Roma per descriverla, quale sarebbe?
LUIGIA: Pier Paolo Pasolini.
SIMONE: Caravaggio.

Come sarà la Quadriennale del 2020?
Difficile solo immaginare il 2020 nello stato d’incertezza in cui ci troviamo, ma ci auguriamo che i processi partecipativi e comunitari inaugurati da questa Quadriennale si sviluppino fino a diventare una banale prassi operativa.

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Una foto pubblicata da La Quadriennale di Roma (@quadriennalediroma) in data:


 

foto ritratto_ denis-VIVADENIS VIVA

ZERO – Che ricordi hai delle precedenti Quadriennali?
Soltanto ricordi indiretti, data la mia età. Più che altro mediati dai cataloghi e dal lavoro di storico dell’arte: ho avuto occasione di studiare, ad esempio, quella del 1948, o quella del 1972-1973. La prima era una Quadriennale febbrile, ansiosa di riconnettersi con l’Europa, con il mondo. La seconda fu una Quadriennale davvero in sintonia con l’arte sperimentale del suo tempo. Spero sinceramente che questa Quadriennale abbia almeno un po’ di quelle due qualità.

Puoi descrivere la sezione da te curata e cosa hai voluto raccontare con essa?
Periferiche è un progetto che nasce da un interrogativo molto semplice: oggi, in epoca di globalizzazione, l’Italia conserva ancora una cultura policentrica, come quella del suo passato? Paragonabile a quella dell’età comunale, rinascimentale, poi ottocentesca e via dicendo? La risposta è complessa, richiede una riconfigurazione completa del problema (non più concepibile nei termini delle epoche che ho descritto). E la risposta è oggi affidata soprattutto agli artisti come singole individualità, non più come esponenti di una scuola o di una tradizione.

Che opera o che artista della tua sezione curata consiglieresti di tenere d’occhio a un visitatore della Quadriennale? Detto, altrimenti, c’è un opera che per te è più esemplificativa o rappresentativa della tua sezione?
Consiglio di tenere d’occhio ciò che ha sotto i piedi oltre a ciò che ha davanti agli occhi. Prendersi del tempo, come quelle opere richiedono. Perché il loro più profondo intento è dentro a questa diversa dialettica e concezione del tempo.

Un dettaglio dell’allestimento di "Periferiche". Foto OKNOstudio
Un dettaglio dell’allestimento di “Periferiche”. Foto OKNOstudio

A quale altra sezione della Quadriennale consiglieresti di prestare attenzione?
Farei così: consiglierei di seguirla nell’ordine delle sale perché si troverà un crescendo di alcuni aspetti installativi ed un richiamo fra i temi, i ragionamenti, le proposte. Si parte da Periferiche e/o La democrazia in America e si arriva a sezioni come Lo stato delle cose, che hanno una simile centralità dell’opera, o a De rerum rurale che torna, in modo completamente diverso, sulla ricerca di un decentramento, di un riscatto della marginalità. Io piuttosto, in tutto questo percorso, consiglierei di tenere sempre alta l’attenzione perché i passaggi, le differenze, le continuità, sono l’elemento di forza dei progetti a carattere plurale come questo.

Sappiamo che per la quadriennale hai preparato una playlist musicale: che musica hai ascoltato durante l’allestimento? In generale, quanto la musica ispira il tuo lavoro e come?
Nessuna in particolare. Credo poco nell’ispirazione. Men che meno se si cerca di indurla.

Qual è l’artista italiano che al momento ti sta rubando più l’occhio, anche al di là di quelli presenti alla Quadriennale?
La Quadriennale mi ha dato occasione di lavorare recentemente con Cristian Chironi, per fare un esempio, o di scoprire molti altri artisti con cui spero di lavorare in futuro. Fuori dalla Quadriennale, in altre mostre che ho visitato, ho da poco notato il lavoro di Silvia Mariotti.

Come definiresti in una frase, o anche solo in una parola, l’arte contemporanea in Italia allo stato attuale?
Deconcentrata.

E Roma?
Spaesata.

Se dovessi associare un artista a Roma per descriverla, quale sarebbe?
Ora come ora, Scipione.

Come sarà la Quadriennale del 2020?
Chi lo sa? Spero solo abbia una progettualità come quella del 2016 alle sue spalle.

foto ritratto_ QUARANTA (1) DOMENICO QUARANTA

ZERO – Che ricordi hai delle precedenti Quadriennali?
Domenico Quaranta – Purtroppo ho solo un vago ricordo accademico dell’importanza delle sue prime edizioni, legato ai miei studi di storia dell’arte.

Puoi descrivere brevemente la sezione che hai curato e cosa hai voluto raccontare con essa?
Viviamo in un’epoca ormai intrisa di mediazione, che si è intrufolata in ogni aspetto della vita, dell’esperienza, dell’immaginazione e del racconto. La politica, l’economia, il lavoro, le forme della comunicazione e della socialità, ma anche l’intimità e il sogno sono stati stravolti dall’impatto dei media digitali e questioni come la privacy, la sorveglianza, la capitalizzazione della vita sociale definiscono una parte importante di ciò che chiamiamo presente. Cyphoria, la sezione da me curata della Quadriennale, solleva queste tematiche e indaga come si riflettono nell’arte italiana contemporanea.

Che opera o che artista della tua sezione consiglieresti di tenere d’occhio? Detto, altrimenti, c’è un opera che per te è più esemplificativa o rappresentativa della tua sezione?
Una collettiva è un bouquet in cui non c’è un fiore che prevale sugli altri, ma in cui ognuno aggiunge un profumo e un tono diverso. Se la tua domanda avesse una risposta avrei curato una personale. Ma è una collettiva e quindi i 14 artisti che ho selezionato sono gli artisti che consiglio di tenere d’occhio in Quadriennale.

Un dettaglio dell’allestimento di "Cyphoria". Foto OKNOstudio.
Un dettaglio dell’allestimento di “Cyphoria”. Foto OKNOstudio.

A quale altra sezione della Quadriennale consigli di prestare attenzione?
Ciglia e Lonardelli hanno selezionato alcuni artisti che seguo con interesse, come Invernomuto, Claire Fontaine, Chiara Fumai. Ho grande stima di Luigi Fassi e di Luca Lo Pinto, e ho apprezzato molto il lavoro proposto da Nicolò Degiorgis in La democrazia in America. Trovo molto coraggiose – anche se forse un po’ arrischiate – le scelte curatoriali di Marta Papini e Simone Frangi: la prima presuppone uno spettatore che ritorna, la seconda un visitatore disposto a un’esperienza più mentale che visiva. Ho amato il lavoro di Michele Spanghero nella mostra di Denis Viva e quelli di Danilo Correale e di Moira Ricci in De Rerum Rurale. Cristiana Perrella si è concessa la sobrietà che è mancata a noi tutti, disegnando un bellissimo colpo d’occhio con pochi, solidi lavori.

Sappiamo che per la quadriennale hai preparato una playlist musicale: che musica hai ascoltato durante l’allestimento? In generale, quanto la musica ispira il tuo lavoro e come?
Per la mia playlist, ho chiesto agli artisti di suggerirmi delle tracce. Il risultato è eterogeneo e caotico come la mostra, anche se, come nella mostra, mi sembra di essere riuscito a creare un’atmosfera, una sorta di narrazione. Di mio, ho aggiunto solo una traccia curiosa: Ragazzo solo, ragazza sola di David Bowie. La canzone, scritta da Mogol, fu commissionata a Bowie dalla sua casa discografica dopo che l’Equipe 84 e i The Computers avevano registrato la loro versione italiana di Space Oddity. Invece di tradurre quell’ode straordinaria ai viaggi spaziali, Mogol l’ha convertita in una banale canzonetta romantica all’italiana. Tutte le volte che la sento mi fa pensare agli stereotipi culturali sull’Italia e l’arte italiana, su come la presunzione della domanda banalizzi un’offerta che potrebbe essere ben più ricca e complessa.

https://www.youtube.com/watch?v=qMIYo9-e630&list=PL8TJdJSaQC2OKsvdgApmzxXZwXkB6xMN3

Qual è l’artista italiano che al momento ti sta rubando più l’occhio, anche al di là di quelli presenti alla Quadriennale?
Massimiliano Gioni. Dalla sua Biennale di Venezia a The Keeper, mi sembra che il suo lavoro curatoriale stia rivelando un rigore, una chiarezza di visione e una ossessività più tipiche di un artista, su un tema chiave per tanta arte contemporanea internazionale.

Come definiresti, in una frase o anche solo in una parola, l’arte contemporanea in Italia allo stato attuale?
Grigia, con una punta di azzurro.

E Roma?
Incantata, come il castello de La bella addormentata nel bosco.

Se dovessi associare un artista a Roma per descriverla, quale sarebbe?
Scipione.

Come sarà la Quadriennale del 2020?
Rosa e glitter, spero.

foto ritratto_ PERRELLA (1) CRISTIANA PERRELLA

ZERO – Che ricordi hai delle precedenti Quadriennali?
Non posso non ricordare la XIV edizione, quella del 2003-2005, dalla quale mi sono dimessa come curatrice. Completamente diversa da quella attuale. Una mostra più volta alla conservazione che all’avanguardia, piuttosto noiosa e scollegata dalla realtà dell’arte italiana. Non tutte le Quadriennali sono state così, naturalmente, l’ultima, otto anni fa, aveva una qualità interessante ma di certo con la 16a edizione si è cercato un cambiamento deciso nell’impostazione. Uno svecchiamento nella formula e nella sostanza, a partire dall’età media dei partecipanti e dalla call for project con cui siamo stati scelti da una commissione di addetti ai lavori. Prima i curatori erano nominati dal consiglio d’amministrazione.

Puoi descrivere brevemente la sezione da te curata e cosa hai voluto raccontare con essa?
La mia sezione si intitola La seconda volta e presenta cinque artisti i cui lavori partono da materiali che hanno già avuto una vita precedente, che contengono storie che l’intervento degli artisti non cancella, ma alle quali sovrappone una nuova narrazione, un nuovo sguardo. Una sorta di riuso o di approccio open source che prevede, in certi casi, anche l’assimilazione nel proprio lavoro di opere altrui, come avviene con Vezzoli e Favaretto. Un’arte composita, residuale, ibrida, con una predilezione per l’approccio “low-fi”, artigianale, per le tecniche manuali.

Un dettaglio della sezione "La seconda volta", curata da Cristiana Perrella. Foto di OKNOstudio
Un dettaglio della sezione “La seconda volta”, curata da Cristiana Perrella. Foto di OKNOstudio

Che opera o che artista della tua sezione curata consiglieresti di tenere d’occhio? Detto altrimenti, c’è un’opera che per te è più esemplificativa o rappresentativa?
Dei cinque artisti che presento, Martino Gamper e Alek O. sono quelli che fanno del riuso, della trasformazione, un elemento costante e centrale della loro pratica artistica. Alek, tra l’altro, è la più giovane ed è sicuramente da tenere d’occhio.

A quale altra sezione della Quadriennale consigli di prestare attenzione?
Quella curata da Domenico Quaranta sull’impatto delle nuove tecnologie. Un tema lontano, finora, dalla mie ricerche, molto attuale e poco rappresentato nei canali ufficiali del sistema dell’arte. Per questo trovo molto stimolante vederlo in Quadriennale.

Sappiamo che per la Quadriennale hai preparato una playlist musicale: che musica hai ascoltato durante l’allestimento? In generale, quanto la musica ispira il tuo lavoro e come?
Durante l’allestimento ho ascoltato soprattutto la traccia di Lorenzo Senni che va in loop, riempiendo lo spazio della sezione curata da Luca Lo Pinto, che è nella sala accanto alla mia. Ipnotica: non ne posso più fare a meno! In generale ascolto di tutto, da Alt-J e Beach House a Mulatu Astatke a Nicolas Jaar. Nella playlist ho fatto però una selezione di brani scelti per affinità ai processi di riuso, montaggio, remix che caratterizzano le opere in mostra e sui quali la musica ha detto la sua prima di qualsiasi altro linguaggio.

Qual è l’artista italiano che al momento ti sta rubando più l’occhio, anche al di là di quelli presenti alla Quadriennale?
Mario Rizzi. La trilogia di video che sta completando – dal titolo Bàit (casa) – sulle primavere arabe viste attraverso il dispiegarsi di piccoli eventi quotidiani della vita di tre donne sconosciute, è una delle cose più intense che ho visto ultimamente.

Come definiresti, in una frase o anche solo in una parola, l’arte contemporanea in Italia? allo stato attuale
Sottostimata e ricca di sorprese.

E Roma?
Che fatica! Però anche qui le sorprese non mancano.

Se dovessi associare un artista a Roma per descriverla, quale sarebbe?
Mario Schifano. Ho appena finito di leggere la sua biografia curata da Luca Ronchi, che consiglio a tutti.

Come sarà la Quadriennale del 2020?
Spero un punto di riferimento per chi, anche dall’estero, vuole conoscere il meglio che si fa nel nostro Paese.

foto ritratto_ LUCCHETTIMATTEO LUCCHETTI

ZERO – Che ricordi hai delle precedenti Quadriennali?
Matteo Lucchetti – Più che ricordi direi che si tratta di un misto tra memorie effettive legate alle opere di Stefano Boccalini, Adrian Paci e pochi altri dell’edizione del 2008, e la mitologia dell’istituzione e del Palazzo delle Esposizioni, che da sempre ospita la mostra. Una volta assegnate le stanze non ho potuto fare a meno di pensare a quale allestimento fosse presente nei miei spazi durante la mostra della Rivoluzione Fascista dal ’32 al ’34. Come parlare di arte italiana oggi senza affrontare i problemi di genere, di rappresentanza territoriale e della “diaspora” verso un indefinito “estero” che caratterizza la mia generazione? Dai ricordi sono rapidamente passato alle responsabilità.

Puoi descrivere brevemente la sezione da te curata e cosa hai voluto raccontare con essa?
De Rerum Rurale è arrivata dall’ascolto degli artisti che ho invitato. Come sempre le mie mostre nascono dal dialogo e dall’osservazione di ciò che muove gli artisti nelle loro ricerche e mai dalla presunzione che una mia idea sia tanto attraente da poterli interessare. La mostra è un omaggio all’impegno sociale nella pratica degli artisti italiani, che portano avanti tale idea nei modi e nei luoghi più disparati. Viviamo tempi in cui l’artista – e il curatore, di conseguenza – devono ricordarsi di essere cittadini, ovvero parte di quei processi che portano, ad esempio, alla crescita dei populismi, allo scoppio di una bomba ad un concerto ma anche all’estensione dei diritti civili. La mostra vuole suggerire, citando Lucrezio, che il rurale corrisponde a una rinnovata idea di natura in un’epoca post Antropocene. Il rurale come spazio ibrido per definizione, dove, tra speculazioni edilizie, conflitti sociali e nuove comunità migratorie, si celano le narrazioni politiche del futuro. Se non si guarda al rurale come vero paesaggio contemporaneo ci continueremo a stupire dei risultati di Brexit o degli esiti delle ultime presidenziali americane.

Un dettaglio della sezione "De Rerum Rurale", curata da Matteo Lucchetti. Foto di OKNOstudio.
Un dettaglio della sezione “De Rerum Rurale”, curata da Matteo Lucchetti. Foto di OKNOstudio.

Che artista della tua sezione consiglieresti di tenere d’occhio? Detto altrimenti, c’è un’opera che per te è più esemplificativa o rappresentativa?
Con il permesso dei miei artisti, segnalerò, senza intenzioni di preferenza ma per indicare un possibile percorso, tre lavori da ognuna delle tre sale. Un filo rosso nella mostra è quello che vuole creare nuove narrazioni sulla migrazione – vedendo in questa un potenziale emancipativo – e connette almeno la prima e l’ultima opera in mostra. Il viaggio di Rossella Biscotti (vincitrice del premio Quadriennale 2016) è un lungo processo che intreccia, nel Canale di Sicilia, l’idea per un lavoro artistico non realizzato per limiti di legge e il dramma di chi in quel luogo naufraga quotidianamente. Il mare viene visualizzato come un territorio legale pieno di vuoti che permettono il permanere di tragedie ambientali e umane. Al lato opposto c’è il film Tre titoli di Nico Angiuli che crea immagini di fortissimo impatto per parlare di schiavitù contemporanea, legandola a doppio nodo con le lotte di emancipazione del lavoro agricolo nel Meridione. Sull’emancipazione si è espressa sapientemente anche Marinella Senatore, che durante l’opening ci ha regalato una performance sulle canzoni di protesta e la loro capacità di diventare memoria e celebrazione delle conquiste ottenute e motore delle lotte a venire. Segnalo inoltre il weekend De Rerum Rurale – il 16, 17 e 18 Dicembre – con performance e talk di Marzia Migliora, Valentina Vetturi, Nico Angiuli, Leone Contini e Luigi Coppola; e il 3 gennaio lo spettacolo di Riccardo Giacconi e Andrea Morbio.

A quale altra sezione della Quadriennale consigli di prestare attenzione?
Nel fare esperienza della Quadriennale consiglio di lasciarsi guidare dai propri interessi e intuizioni, cercando di creare una propria undicesima sezione, che connetta tra di loro opere appartenenti a discorsi curatoriali diversi. Se dovessi fare io questo esercizio comincerei per affinità senza dubbio da La Democrazia in America di Luigi Fassi.

Sappiamo che per la quadriennale hai preparato una playlist musicale: che musica hai ascoltato durante l’allestimento? In generale, quanto la musica ispira il tuo lavoro e come?
Ascolto musica costantemente e ho addirittura una playlist che si chiama Writing che riesco ad ascoltare mentre scrivo. Durante l’allestimento Blonde di Frank Ocean e Lemonade di Beyoncé erano in loop. “I may be younger but I’ll look after you / We’re not in love, but I’ll make love to you”.

Qual è l’artista italiano che al momento ti sta rubando più l’occhio, anche al di là di quelli presenti alla Quadriennale?
Ultimamente, più che l’occhio mi sta felicemente rubando molto tempo il lavoro di Marinella Senatore, con la quale sto preparando una grande mostra negli Stati Uniti per il Queens Museum di New York che aprirà ad Aprile 2017.

Come definiresti in una frase, o anche solo in una parola, l’arte contemporanea in Italia allo stato attuale?
In uno stato di diaspora inconsapevole.

E Roma?
Cito Pasolini: “Roma, con tutta la sua eternità, è la città più moderna del mondo: moderna perché sempre al livello del tempo, assorbisce tempo”.

Se dovessi associare un artista a Roma per descriverla, quale sarebbe?
Alberto Sordi. Dal visitatore ignaro alla Biennale di Venezia del 1976 (Le vacanze intelligenti), al marchese Del Grillo (“Perché io so io e voi…”), passando per il colonialista di Ettore Scola (Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?), ha descritto tutte le sfaccettature di Roma e dei romani, quella grandezza innata che si frantuma al primo congiuntivo.

Come sarà la Quadriennale del 2020?
Ancora dedicata, direttamente o indirettamente, all’eredità di Pasolini. E quindi a tutto quello che l’Italia ancora non è e che potrebbe diventare.

 

foto ritratto_ LO PINTO

LUCA LO PINTO

ZERO – Che ricordi hai delle precedenti Quadriennali?
Luca Lo Pinto – In generale vaghi. Tuttavia ricordo bene un’opera che mi aveva colpito. Una grande installazione di Elisabetta Benassi composta da centinaia di megafoni che formavano la frase They live we sleep e che era emessa ad alto volume. Pur non avendola vissuta, la Quadriennale che conosco meglio per averla studiata (avevamo pubblicato uno speciale su un vecchio numero di NERO) è quella curata da Filiberto Menna nel 1973. Artisti, opere e allestimento all’avanguardia. Una delle migliori mostre degli anni 70 in Italia, ma meno citata di altre.

Puoi descrivere brevemente la sezione da te curata – A occhi chiusi, gli occhi sono straordinariamente aperti – e cosa hai voluto raccontare?
Una palestra visiva e sonora per allenare l’occhio e la mente all’interpretazione di storie, linguaggi, immaginari inscritti in una polifonia di opere lontane da verità fattuali, sospese in un limbo temporale e deliberatamente oscure di significato.

Che opera o che artista della sezione da te curata consiglieresti di tenere d’occhio a un visitatore della Quadriennale? Detto, altrimenti, c’è un opera che per te è più esemplificativa o rappresentativa?
Emilio Villa. L’ho scelto come mio cavallo di Troia per una mostra inserita in una manifestazione dal carattere storico come la Quadriennale. Una volta scrisse che «La storia è uno sbaglio continuo, che non si ferma, e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedere, di ricredersi, di affermare oggi, per rimangiarsi tutto domani». Lo condivido in pieno.

Un Un dettaglio dell’allestimento di "A occhi chiusi, gli occhi sono straordinariamente aperti”. Foto OKNOstudio.
Un Un dettaglio dell’allestimento di “A occhi chiusi, gli occhi sono straordinariamente aperti”. Foto OKNOstudio.

Quale altra sezione della Quadriennale sei stato curioso di vedere?
Tutte. Questa quadriennale è come una famiglia allargata composta da parenti lontani e vicini che si ritrovano a parlare sotto lo stesso tetto.

Sappiamo che per la Quadriennale hai preparato una playlist musicale: che musica hai ascoltato durante l’allestimento? In generale, quanto la musica ispira il tuo lavoro e come?
Negli ultimi due mesi ho ascoltato almeno quattro volte al giorno I Am the Fly dei Wire.

Qual è l’artista italiano che al momento ti sta rubando più l’occhio, anche al di là di quelli presenti alla Quadriennale?
Emilio Prini. La sua scomparsa lo rende ancora più presente nei miei pensieri.

Come definiresti in una frase, o anche solo in una parola, l’arte contemporanea in Italia allo stato attuale?
Intrigante.

Come definiresti, invevce, Roma?
Imprevedibile.

Se dovessi associare un artista a Roma per descriverla, quale sarebbe?
Gino de Dominicis.

Come sarà la Quadriennale del 2020?
Futuristica.

Unreleased picture from Rä di Martino’s “Le Storie esistono solo nelle storie”. The newly commissioned piece for “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti” where she “performed” the history of the institution starting with its own representation, conducting a re-enactment developed on the borderline between reality and fiction, and synchronizing two temporalities in a single note. #radimartino #adocchichiusigliocchisonostraordinariamenteaperti #quadriennaledarte #Q16 #art #artist #artwork #instaart #arte #earth #artsy #artistic #artoftheday #digitalart #arts #contemporaryart #fineart #instaartist #artists #artofvisuals #fanart #myart #artgallery #modernart #elisabettabenassi

Una foto pubblicata da La Quadriennale di Roma (@quadriennalediroma) in data:

 

foto ritratto_ FASSILUIGI FASSI

ZERO – Che ricordi hai delle precedenti Quadriennali?
Lugi Fassi – Come spettatore diretto, la mia prima Quadriennale fu la XIV edizione, quella tenutasi con due anteprime a Napoli e Torino nel 2004. Risiedevo a Torino e beneficiai dell’opportunità di vedere l’anteprima torinese della Quadriennale alla Promotrice di Belle Arti al Parco del Valentino in riva al Po. Ricordo una mostra caratterizzata da una grande freschezza, con molti nomi di artisti che negli anni a venire si sarebbero imposti all’attenzione nazionale e altri che invece sono rimasti più in penombra negli anni a venire. Questo forse è stato il ruolo della Quadriennale negli anni: spaziare criticamente attraverso l’arte italiana contemporanea senza preoccuparsi troppo di cosa sarebbe successo nel futuro, ma piuttosto alla ricerca di stimoli e impulsi provenienti dalla scena artistica del Paese. Penso sia un peccato l’istituzione abbia perso smalto nel corso degli ultimi decenni. Ai suoi esordi e in molte sue tappe dei decenni passati le Quadriennali non erano a mio avviso solo delle mostre di ampia portata, ma degli appuntamenti che tenevano le fila di un dibattito artistico nazionale che si dispiegava negli anni immediatamente precedenti a ogni edizione. La Quadriennale aveva così un ruolo non solo curatoriale, ma innanzitutto critico, che dava linfa a tutto il sistema dell’arte nazionale. Oggi è certamente arduo immaginare per la Quadriennale un simile ruolo ermeneutico, ma l’auspicio è che da questa edizione possa nascere un nuovo chiaro impulso per il suo futuro.

Puoi descrivere la sezione da te curata e cosa hai voluto raccontare con essa?
La sezione, intitolata La democrazia in America, nasce da una mia proposta rivolta agli artisti partecipanti di analizzare alcuni aspetti problematici della storia dell’Italia contemporanea – dal suo incerto sviluppo come repubblica democratica nel dopoguerra, al suo rapporto fatto di accelerazioni e rallentamenti con la storia dell’Europa Unita, sino alle complesse trasformazioni geopolitiche in corso nel presente – partendo da una fonte di analisi straniera, ma molto vicina alla cultura italiana. Si tratta del saggio di Alexis de Tocqueville, La democrazia in America, pubblicato nel 1835, dove l’autore si interroga sulla novità dell’epoca, l’avvento dell’uomo democratico e la spinta inarrestabile verso l’uguaglianza dei diritti, che trovano negli Stati Uniti la loro prima manifestazione statuale. La democrazia in America venne tradotta in italiano già nel 1884 e rappresenta un testo che ha accompagnato la storia del nostro Paese dalla fase preunitaria al Fascismo sino al presente, oggetto continuo di dibattiti, interpretazioni e appropriazioni. La mostra vuole porsi in questo contesto e, con una dose di imprevedibilità, parlare dell’Italia argomentando alcuni temi chiave del pensiero tocquevilliano, quali il rapporto libertà-uguaglianza, il ruolo dei partiti, la funzione della libera stampa, la relazione tra ricchezza individuale e parità dei diritti politici e altri ancora. Tutti temi letti, appunto, in una prospettiva italiana e ai quali gli artisti hanno risposto con idee, ipotesi e interpretazioni rivolte alla storia recente del nostro Paese. Gli artisti coinvolti sono tutti nati tra i 70 e gli 80 e hanno geografie e background molto diversi.

Un dettaglio dell'allestimento de "La democrazia in America". Foto OKNOstudio.
Un dettaglio dell’allestimento de “La democrazia in America”. Foto OKNOstudio.

C’è un opera che per te è più esemplificativa o rappresentativa della tua sezione?
Non c’è un’opera più rappresentativa. Mi permetto però di suggerire di prestare particolare attenzione alle opere di due artisti non ancora particolarmente noti al pubblico italiano, anche specializzato: Alessandro Balteo-Yazbeck e Nicolò Degiorgis. Il primo espone documenti e materiali che mostrano come la stampa americana affrontò il caso italiano e la diffusione del Comunismo durante gli anni della Guerra Fredda, lanciando l’allarme sul rischio di perdere il controllo geopolitico del Paese. In tal contesto è sopreprendente il racconto pubblicato nel 1949 dalla rivista Fortune sulla vita di una famiglia di contadini nella Calabria più rurale. Nicolò Degiorgis ha prodotto invece un’opera che racconta la ricezione da parte dell’opinione pubblica nella provincia di Treviso dell’insediamento di cittadini mussulmani. L’artista si è servito di un’unica fonte di archivio, costituita da oltre mille articoli del quotidiano La Tribuna di Treviso, in un arco temporale dal 2001 ad oggi. Nella vicenda trevigiana, specchio locale delle più grandi trasformazioni sociali in corso in Europa, Degiorgis mette al centro della propria riflessione lo stato di diritto in Italia e l’ambiguità del ruolo dei media, oggi sempre più degradato da una vocazione a incitare forme di estremismo e populismo.

Quale altra sezione della Quadriennale sei stato curioso di vedere?
Sono stato curioso di vedere tutta la Quadriennale, come si sono bilanciati tra loro i vari progetti e l’atmosfera complessiva creatasi. In particolare, ho approfondito De Rerum Rurale di Matteo Lucchetti, che sento vicina ai miei interessi e ai temi della mia mostra.

Che musica hai ascoltato durante l’allestimento? In generale, quanto la musica ispira il tuo lavoro e come?
Non ho una cultura musicale molto contemporanea. Amo ascoltare la tradizione musicale barocca, da quella italiana di Alessandro Scarlatti a quella dei musicisti tedeschi di cultura protestante come Dietrich Buxtehude.

Qual è l’artista italiano che al momento ti sta rubando più l’occhio, anche al di là di quelli presenti alla Quadriennale?
Seguo con interesse gli sviluppi del lavoro di Yuri Ancarani.

Come definiresti in una frase l’arte contemporanea in Italia allo stato attuale?
In continua evoluzione, imprevedibile e di difficile tracciabilità.

E Roma?
Per un provinciale nato e cresciuto a Torino come me, Roma rappresenta sempre una ragione di gioia ed emozione. Mario Soldati ha ben descritto questo rapporto ne Le due città.

Se dovessi associare un artista a Roma per descriverla, quale sarebbe?
Johan Wolfgang Goethe. Le pagine e le riflessioni su Roma scritte nei suoi due anni di soggiorno in città rimangono memorabili.

Come sarà la Quadriennale del 2020?
Spero segni un ulteriore passo di riscatto verso una completa riqualificazione del suo ruolo storico nel nostro Paese.

Alexis de Tocqueville (Honore’ Dumier, 1849) #quadriennaledarte #Q16 #apostmodernweek #curatingq16 #democracy #politicalphilosophy

Una foto pubblicata da La Quadriennale di Roma (@quadriennalediroma) in data:

 

foto ritratto_ D'AURIZIO (1)MICHELE D’AURIZIO

ZERO – Che ricordi hai delle precedenti Quadriennali?
Otto anni fa, quando si è tenuta l’ultima edizione della Quadriennale, non avevo ancora maturato un interesse per l’arte contemporanea – studiavo architettura allora. Recentemente però ho visitato la mostra Roma Anni Trenta, alla Galleria d’Arte Moderna di Roma, e lì ho avuto modo di assaporare l’atmosfera delle primissime edizioni della rassegna.

Puoi descrivere brevemente la sezione da te curata e cosa hai voluto raccontare?
La mia sezione propone un attraversamento dell’arte contemporanea italiana attraverso il linguaggio della ritrattistica. Ho invitato ventidue artisti, di diverse generazioni, a presentare autoritratti o ritratti di altri artisti, dei propri partner, di ex-compagni di studi o più in generale di membri della propria comunità. Vorrei che attraverso le opere in mostra lo spettatore possa cogliere uno spaccato della quotidianità degli artisti e notate come, per queste figure, spesso l’atto del fare arte sia indissolubile dallo stare al mondo.

La sezione "Ehi, voi!", curata da Michele D'Aurizio. Foto di OKNOstudio.
La sezione “Ehi, voi!”, curata da Michele D’Aurizio. Foto di OKNOstudio.

Che opera o che artista della sezione curata consiglieresti di tenere d’occhio? Detto, altrimenti, c’è un opera che per te è più esemplificativa o rappresentativa della tua sezione?
Non c’è una o più opere che ritengo rappresentative della sezione. Anzi, ho cercato di essere quanto più inclusivo possibile nella costruzione della mostra proprio per offrire un’ampia varietà di declinazioni (tanto in termini di linguaggi che di storie) del tema che ho scelto. La mostra tenta di replicare la pluralità di voci delle comunità artistiche che interseca: come in quelle l’“io” si fonde nel “noi”, così l’allestimento è pensato perché le opere si sovrappongano e riflettano l’una nell’altra.

A quale altra sezione della Quadriennale consigli di prestare attenzione?
Tutte le sezioni sono ugualmente interessanti, proprio perché è interessante la commistione di prospettive sull’arte italiana contemporanea che questa Quadriennale offre. Si è molto polemizzato sulla scelta da parte dell’organizzazione di selezionare dieci curatori per questa edizione, presumibilmente dirottando l’attenzione su questioni curatoriali più che prettamente incentrate sulle opere d’arte. La mostra certamente offre un ricco vocabolario di modi di concepire una mostra. Però non credo che nessun artista abbia sentito la propria pratica strumentalizzata o ingabbiata in macchine espositive solipsiste o auto-celebrative di visioni curatoriali. Per me, come credo per tutti i miei colleghi curatori, il punto di partenza dei progetti è sempre l’ascolto degli artisti; e l’obiettivo è la veicolazione, in maniera quanto più limpida possible, del loro pensiero.

Sappiamo che per la Quadriennale hai preparato una playlist musicale: che musica hai ascoltato durante l’allestimento? In generale, quanto la musica ispira il tuo lavoro e come?
Ascolto prevalentemente musica dance: techno e forme più o meno sperimentali di EDM. Questo perché ho una grande passione per il clubbing. Un po’ sulla scia di quanto dicevo prima, quando sei in un club sei sempre un po’ solo e allo stesso tempo insieme a tante altre persone. Quindi, inevitabilmente, l’esperienza del clubbing ha a che fare con l’empatia, con il sentire comune. Per la playlist ho collaborato con un amico artista e dj, Jacopo Mazzetti. Con Jacopo organizziamo di tanto in tanto delle feste sotto lo pseudonimo di M.I.L.A.N.O.

 

Qual è l’artista italiano che al momento ti sta rubando più l’occhio, anche al di là di quelli presenti alla Quadriennale?
Recentemente sono tornato a guardare la prima produzione di Michelangelo Pistoletto. Credo che i Quadri specchianti siano una delle invenzioni artistiche più geniali dell’arte italiana del Novecento.

Come definiresti l’arte contemporanea in Italia allo stato attuale?
Solida.

E Roma?
Fuori controllo.

Se dovessi associare un artista a Roma per descriverla, quale sarebbe?
Mario Schifano.

Come sarà la Quadriennale del 2020?
Major.

@gasconade_by_air X #Q16 / (Before) Ehi, voi! / #MichelangeloPistoletto, Uomo seduto (1962), fotografia di Paolo Bressano #quadriennaledarte

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