Quella cieca epidemia sembrava non fermarsi più.
Come un tumore inarrestabile che divora la sua stessa massa. Ma peggio ancora, perché essa pareva essere estranea. Non se ne conosceva l’origine. A nessuno era mai fregato niente da dove sortisse fuori quella roba, quanto più della sua fine. Forse per questo era lì, la pandemia, così la chiamavano. A immagine e somiglianza della distruzione. Dell’eclisse della vita. Di quella breve libertà, fugace come il rapace della follia e il suo battito d’ali enorme. Libertà che si respirava appena nell’istante silenzioso oltre il vibrare d’una rotazione celeste. Quando si poteva respirare, senza buttare nell’atmosfera in convulsi colpi di tosse le tossine inquinanti gli alveoli polmonari delle ramificazioni di piante ribaltate all’ingiù.
I profili tetri invernali e spogli al ciglio della fossa dove tutto ha avuto origine: la nascita.
Come profili vuoti sullo schermo di un cielo grigio che non piace a nessuno. L’ostruzione lenta ma costante delle arterie ricolme di sangue, come ruscelli freschi di primavera in cui pisciare radiazioni nucleari. Con le spighe di grano, e speranza, a cadere come lunghi e lucenti capelli spezzati da chemioterapie senza pietà. Non vi era più un ritorno. No. Nessun posto, per alcuna specie animale. Non vi era più una casa dentro la quale potersi rinchiudere, ormai. Né tana, né nido. Né tao, né via. C’era solo la solita linea sottile da percorrere, invisibile, la stessa traiettoria rotonda come il destino, come l’eterno ritorno dell’uguale, il medesimo cerchio di rettili intrecciati attorno al proprio centro: quella tenera luce, come un cuore fragile. Che batte. E attende. E ribatte. Bussa nel vuoto. Pulsar. Così freddo, nonostante i milioni di gradi. Così distante, seppure sempre presente. Tutti rivolti verso di esso. Spacciati. Imploranti. Quasi a volergli gridare aiuto, come a un cinico creatore, a un dottore, che non si conosce ma è lì, e che forse può salvarti. Se resta niente da salvare. Qualcosa che è in grado di dare la vita, sì, ma senza amore.
Così era stato creato l’inferno.
Ricordo ancora i suoi occhi, brillanti come il sole, il momento in cui mi sono resa conto di
essere infetta anche io. Era solo un altro semplice passo verso lo sprezzante ruotare e chiudersi delle stagioni, con o senza di me. Sentivo quel presagio inevitabile che quella “razza” si trascinava dietro. Lui, fisso davanti a me, splendeva sempre senza pietà. Quel grande occhio appena schiuso di neonato. E mentre io gli danzavo e danzavo attorno, come per pregarlo, cercando di fargli cogliere la mia azzurra bellezza che riluceva di lui, loro si formavano nell’ombra delle grotte, e moltiplicavano. E senza accorgermene, dopo poche giravolte, nel carillon senza musica di un vuoto cosmico, ecco che ne ero piena.
Erano miliardi, quegli esseri schifosi.
Glabri. Bipedi. Imbattibili. Sempre più forti, più metallici. Lì, a uccidere e divorare fragole liofilizzate e cacare hamburger senza aver mai visto la grazia mozzafiato delle mie vacche nelle vallate al tramonto. O udire il richiamo straziato dei loro vitelli sgozzati di fresco all’aurora. E lui, così lontano, splendeva ancora. Indifferente. Sicuro di sé, sì, forse perché l’infezione non avrebbe mai potuto resistere a quel suo calore. E io giravo e giravo. Come a voler perdere i sensi. Se c’era da crepare, almeno, pensavo, crepare danzando. Una baccante inebriata di luce. Spacciata. Infelice. Abbandonata. Ignorata. Sentivo la mia pelle venire rosicchiata dai loro grandi aratri d’acciaio. La mia linfa arborea prosciugata. E la loro pallida sbora nei miei mari. Ne ero nauseata. Mi sentivo febbricitante. Quasi da svenire, ma senza poter mollare quella dannata traiettoria. Un corpo celeste smembrato e trascinato da cavalli invisibili senza mura ma con tante troie. E più ballavo e ruotavo, e più il calore aumentava. E aumentava. Come le mie preghiere. Mentre quelli si azzannavano e bestemmiavano, e nel farlo fra loro, lo facevano a me.
E si esplodevano in grandi montagne di fuoco. E io morivo piano. Pezzo per pezzo.
Ormai non era più un presagio, no. Sarei collassata per causa loro. Che laceravano foreste. Tagliavano l’aria. Inquinavano ossigeno. E poi si sforzavano di metterlo in delle scatolette di latta, dette bombole. E io più giravo, più scioglievo ghiacciai di sudore. Da sola. E loro si accoppiavano e riprendevano. E sebbene li odiassi, come i miei microscopici assassini, quei rognosi pezzi di merda, li amavo anche in quanto inevitabile essenza di me.
E poi un giorno, quando ormai i parassiti riducevano a brandelli gli ultimi stralci delle mie carni di pietra, con le preghiere al sole ignorate da ere, e le mie sempre più inutili danze rotonde d’amore, ecco, qualcosa. Una specie di farmaco naturale. In realtà un nuovo anticorpo improvviso: COVID19.
Se avesse funzionato, nessuno lo poteva sapere.
Né tanto meno la sua origine, sempre che a qualcuno importi delle origini delle cose. O di chiudere un cerchio. So solo che il mio corpo ha tremato tutto, percorso da un profondo brivido di febbrile speranza. E per un attimo ho visto la luna eclissare il sole. Come un occhiolino.
Sistema Solare, 2020 D.C.