Anche se a Calvairate quella anglosassone è forse una delle comunità meno rappresentate, se si dovesse scegliere una parola per descrivere il quartiere non si potrebbe prescindere dal citare il concetto di understatement. Peccato solo che per raccontare la tendenza a minimizzare, condita da una ritrosia maldestra e ironica allo stesso tempo, si debba ricorrere a un inglesismo, che di questi tempi va un po’ contro alla stessa idea di understatement. Non è un caso però che una delle cose di cui vanno maggiormente fieri gli abitanti del quartiere, ovvero il famigerato disagio calvairatese, si esprime – tra le sue mille sfumature – proprio attraverso questa attitudine: se Calva fosse una persona sarebbe il classico unfuckable loser. Uno sfigato un po’ matto e un po’ illuminato, che scende a comprare il pane in ciabatte in Ciceri Visconti.
L’understatament calvairatese si esprime principalmente nella totale assenza di qualsivoglia approccio markettaro di sé stesso.
Come emerge a più riprese dalle parole dei suoi abitanti, ritratti in queste pagine, l’understatament calvairatese si esprime principalmente nella totale assenza di qualsivoglia approccio markettaro di sé stesso. E di cose da vendere ce ne sarebbero eccome. A partire dal fatto che il quartiere si trova a soli 3 km da Duomo, schiacciato tra due circonvallazioni e due radiali, ma senza nessuna fermata della metro veramente vicina. Collegato al resto dell’esosfera milanese dalla 90 e dal passante ferroviario, solo questo basterebbe a far capire che a Calvairate l’hype non arriva, se non a singhiozzo. Al passo intermittente dei filobus, che come tutti sanno sono penalizzati da improvvisi cali di tensione. Tra le chicche della zona si annoverano, tra gli altri, tremila alloggi Aler compresi tra piazza Martini e piazzale Cuoco, costruiti nei primi del ‘900 per ospitare le famiglie dei tramvieri ATM; una delle piazze di spaccio di eroina più attive negli anni ‘80 e ‘90 – Insubria – e udite udite! il più alto tasso di persone con disagio psichico in tutta Europa, probabile retaggio storico del primo nucleo manicomiale di Milano, quello della Senavra, costruito a fine ‘700 a ridosso di corso XXII Marzo. Nonostante ciò Calvairate non primeggia nemmeno tra i quartieri più difficili e problematici. Ben altri i nomi che si contendono la palma, come il vicino Corvetto, la cugina Barona o il prezzemolino Quarto Oggiaro.
Anche il disagio, seppur sbandierato e rivendicato quasi con orgoglio, ha in Calva un taglio understatement. In primis grazie alla presenza dei “lodgers”, ovvero gli appartenenti alla social street “La Loggia di Calvairate”, da cui negli ultimi anni è nata un’associazione culturale che promuove momenti di incontro e di scambio ‘con’ e ‘per’ il quartiere, e che fa dell’ironia la propria arma più potente per combattere il degrado partendo dal basso. E insieme a lui il racconto di un quartiere frazionato e diviso. La cosa che si nota subito camminando tra le sue vie è l’aria un po’ dimessa dei palazzi, la maggior parte dei quali costruiti tra gli anni ’50 e ’60, quando Milano insieme al resto d’Italia faceva colare calcestruzzo a profusione, come a sigillare le ferite dell’anima che si erano aperte durante la Guerra. Pur con esempi di architettura d’eccezione, come le case popolari citate prima, in cui ebbe i natali anche la divina “Carlina” Fracci, recentemente ricordata grazie a una targa posta dalla Loggia all’entrata dei caseggiati di via Tommei. O l’ex-Macello, con le sue palazzine liberty su viale Molise, nelle quali Macao teme la cronaca di uno sgombero annunciato in seguito all’assegnazione del bando per la riqualificazione dell’area (e dove si spera riqualificazione non faccia rima con “gentrificazione” ma con “rigenerazione”). Per finire con l’Ortomercato, gigante grigio fumo con le lettere scrostate che compongono la scritta sulla facciata e che sorveglia i confini del quartiere con il suo abbraccio di cemento.
Non si respira né la coolness di certe altre zone di periferia, come gli acronimi inventati ad hoc sotto la spinta del self-marketing, né tantomeno un’aria di totale abbandono.
In generale a Calvairate non si respira né la coolness di certe altre zone di periferia, sorte agli onori delle cronache cittadine grazie ad acronimi inventati ad hoc sotto la spinta del self-marketing, né tantomeno un’aria di totale abbandono, dal momento che la zona è al centro, negli ultimi anni, di progetti virtuosi che parlano di futuro e sostenibilità nel migliore dei casi, e di speculazione immobiliare nel peggiore. Una sorta di limbo sospeso a metà tra rinascita e scatafascio dove trova spazio la vera ricchezza del quartiere. Le persone. Sarà banale da dire, ma Calvairate è un quartiere di gente molto bella e che non se la tira. Con tutta la genericità che questi termini contengono. Bella proprio perché generica, varia e non facilmente catalogabile secondo etichette predefinite. Non ci sono solo immigrati di seconda generazione o abitanti delle case popolari, né tantomeno solo spacciatori. Ma non ci sono nemmeno solo hipster o creativi. Non ci sono solo famiglie o solo pensionati. E non ci sono solo matti o disperati. Ci sono tutti. E stanno insieme che è una meraviglia, come i colori dell’arcobaleno che decorano la panchina rainbow di piazza Insubria.
Tutti, o quasi, vanno a comprare il giornale da Giancarlo in piazzale Martini, si fermano per una birra al Bachelite o per un bicchiere di vino da Antidoto… Tutti hanno preso almeno un gelato da Melaverde o si sono mangiati una pizza da Napule è. Tutti prima o poi hanno festeggiato un compleanno con una torta di Tentarelli o di Anfossi, a seconda delle fazioni, o hanno fatto una scappata al mercatino delle pulci di Piazzale Cuoco per recuperare qualche pezzo vintage altrimenti introvabile. E se non lo hanno ancora fatto, state sicuri lo faranno. Perché Calvairate è un paese, come anche il nome sembrerebbe suggerire. Uno di quelli in provincia di Como come Vertemate con Minoprio. O meglio, un quartiere nel vero senso della parola. Un universo circoscritto con riti ben precisi e abitudini consolidate.
Perché alla fine i quartieri li fanno le persone, prima che le toponomastiche (cit.). E Calvairate è un quartiere fatto da persone che quando lo scoprono, difficilmente lo cambiano. Perché ci si sta da Dio, almeno fino a quando le nubi minacciose della riqualificazione non scaricheranno sulle sue strade e sui suoi palazzi una pioggia di appartamenti ristrutturati da 6.500 euro al metro quadro e di locali e ristoranti pettinati. Allora non ci sarà più spazio per la sua variegata umanità. Ma fino a quel momento, e ci auguriamo per quanto più tempo possibile, vedremo sventolare sui suoi tetti i vessilli di un disagio squisitamente understatement, e guarderemo il cielo con gli occhi meravigliati di bambini di fronte a un pirotecnico spettacolo di fuochi artificiali che illuminano la notte di zona 4, prima di un’alba che non si sa se sperare che arrivi.