Più che un vero e proprio quartiere, quello attorno MACRO è una sorta di quadrante immaginario. È da pensare come una carta velina su cui è disegnata una mappa che copre un’area che va da piazza Fiume sino al Coppedè, vede gli alberi di Villa Torlonia e viene sigillata da via Nomentana. L’aria che qui si respira è storicamente piuttosto abbottonata, con il suo peculiare profilo alto-borghese che la caratterizza da almeno un secolo. Ponendo sul quartiere questa cartina immaginaria, questa lente che offre una diversa visione, ci si accorge però che da qualche tempo sono spuntate tutta una serie di realtà, molto differenti tra loro, che hanno iniziato a (ri)vitalizzare l’area e stanno contribuendo a mutarne un po’ l’identità – senza però averne ancora intaccato l’ossatura originaria.
Nel tracciare questa mappa si deve partire proprio dal MACRO, museo istituito nel 1999 come Galleria Comunale D’Arte Moderna e Contemporanea di Roma e successivamente rinominato nel 2002 Museo di Arte Contemporanea di Roma, con un progetto arricchito nel tempo dagli interventi dell’architetto francese Odile Decq. Il MACRO ha subito negli ultimi mesi una trasformazione abbastanza radicale con l’arrivo del direttore artistico Luca Lo Pinto. Tanto per cominciare, c’è un concetto inedito che sorregge la filosofia di questo nuovo corso: quello di “Museo per l’Immaginazione Preventiva”. Come Luca stesso spiega: «Gli artisti e le loro idee, o il dialogo con loro, sono la cosa che mi ha più influenzato nel curare le mostre, da sempre. Qui al MACRO i budget non sono altissimi e lo spazio è complicato, ma è proprio questo che ci insegnano gli artisti: anche lo spazio più difficile del mondo può essere usato, basta avere un’idea. Quindi il mettere le idee e l’immaginazione al centro di tutto è stato quasi un manifesto».
“Museo per l’Immaginazione Preventiva” è anche un piccolo ma sentito omaggio a un collettivo fondato negli anni Settanta a Roma chiamato Ufficio per l’Immaginazione Preventiva, che diede vita anche a una rivista. L’Ufficio operava senza avere uno spazio fisso, ma in posti pubblici della città. «Mi interessava molto creare un qualcosa senza avere uno spazio così come l’idea dell’ufficio, ovvero il richiamo al corporate. Una cosa assolutamente contemporanea, basti pensare a DIS e ad altre realtà che giocano con l’idea di non nascondere il fatto di non essere fuori, ma che provano a corrompere da dentro». Altri elementi di cambiamento hanno riguardato la comunicazione del Museo: l’utilizzo di un avatar, realizzato da Nicola Pecoraro, un artista, anziché un logo tipografico di cui invece si avvalgono tutti i musei; e una newsletter che dà del tu al lettore, facendo capire un po’ meglio l’organicità del progetto: «Abbiamo scelto l’avatar del polpo perché chiunque conosce quell’animale e le sue caratteristiche, che si prestano a una molteplicità di letture: è docile ma spara inchiostro, cambia colore, è tentacolare. Era il modo migliore di rappresentare questa nuova fase […] Eliminare la terza persona così istituzionale e formale può sembrare una cosa banale, ma non lo è: relazionarsi con qualcuno che ti dice “stasera ho questo” crea tutta un’altra ricettività. Infatti la cosa è stata subito notata».
Vedendo tutte queste dinamiche dall’alto della mappa immaginaria, la questione diventa ancora più interessante: il concetto di istituzione messo in discussione da un museo, anch’esso un’istituzione, all’interno di un quartiere assolutamente istituzionale e di una città che conosce solo dimensioni antitetiche: «A Roma mancano posti capaci di offrire una didattica di qualche tipo, ad esempio musicale. Roma si è sempre difesa attraverso l’underground. L’underground ha sempre agito sapendo di essere più forte delle istituzioni, quindi fregandosene di esse. E quando le istituzioni provano a valorizzare quel tipo di contenuti li annacquano irrimediabilmente. Ecco perché non c’è dialogo tra underground e istituzioni». Due livelli che si muovono uno sopra l’altro senza mai incontrarsi, come fossero delle correnti oceaniche che scorrono ognuna alla sua profondità prestabilita. Difficile trovare un altro quartiere più emblematico da questo punto di vista.
Sono spuntate tutta una serie di realtà, molto differenti tra loro, che hanno iniziato a (ri)vitalizzare l’area e stanno contribuendo a mutarne un po’ l’identità
Basti pensare a realtà come Hellnation, storico negozio di dischi e altre amenità rigorosamente hardcore e punk, e a Inferno, prosecuzione ideale dell’esperimento Hellnation, guidato dalla compianta Claudia Acciarino e da Martini Enfer. Cherry, studio tra i più rispettati per quel che riguarda tattoo e piercing; Er Box, un ex garage convertito in club da strada, con due piatti su cui girano dischi di musica elettronica affiancati da birrette e vino; JiaMo Lab, che da nulla ha lanciato una nuova idea di ristorazione cinese, così come un pioniere è stato Kebab in via Valenziani; il training center Volt di Simone Raspagni, unico in città per struttura e filosofia. O ancora, andando più indietro nel tempo, la galleria Mondo Bizzarro, il Piper degli esordi e il cinema horror di Dario Argento che da queste parti ha trovato più volte casa. Tutti sempre lì, a confrontarsi con un vicinato fatto di uffici, targhette da scrivania e condomìni all’insegna della discrezione.
C’è poi chi invece il quartiere lo guarda dall’ottica tecnica e specialistica di chi si ferma a vedere con quale materiale è stato costruito un ponte, una strada o un’impalcatura. Gli architetti sono fatti così, fanno caso ai particolari e cercano di capire se da qualche parte c’è nascosta una simmetria nascosta che ancora non hanno scovato. Magari il team di WAR non se ne va in giro con le braccia dietro la schiena a osservare i cantieri, ma di sicuro in quanto ad architettura sa il fatto suo e lo stesso si può dire di un altro studio, stavolta di grafica, sempre presente nel Quartiere MACRO. Parliamo di Mistaker, che tra i propri clienti ha nomi come La Repubblica, Il Sole 24 Ore, Enel, ma anche realtà più centrate sulla dimensione creativa, come ad esempio la Fondazione Romaeuropa.
C’è anche chi nel quartiere ci è nato e cresciuto, e non lo cambierebbe per nulla al mondo: personaggi ormai noti in zona, come la signora Elena Martin Brini, storica cappellaia di via Ancona, il signor Tonino dell’Enoteca Molinari, i gestori del negozio per appassionati di biciclette Lazzaretti o anche Giovina, giovane cofondatrice di Tapistelar, che da via Nizza vende ovunque tappeti artigianali realizzati in Colombia. L’appello poi continua con le tante realtà gastronomiche d’eccellenza, i libri della casa editrice 66thand2nd, la musica suonata di Arssalendo e quella “consigliata” di Luca Quartarone, i team di bowling asiatici che bazzicano viale Regina Margherita e gli apprendisti campioni di biliardo che si ritrovano ai tavoli verdi del Cathedral. All’ombra della Rinascente, (eppur) qualcosa si muove.