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Bologna, città consumista e comunista (di Pier Paolo Pasolini)

Scritto da LR il 8 giugno 2022

Per i 100 anni dalla nascita di Pasolini anche Bologna, sua città natale, si è accodata all’accorata caterva di omaggi per ricordare giustamente colui che fu uno degli intellettuali più importanti del nostro Paese, l’ultimo grande secondo qualcuno. Lo stesso Pasolini è stato fonte di ispirazione e testimonial inconsapevole per lo slogan più volte ripetuto negli ultimi mesi “Bologna: dove nasce il pensiero libero” che ha visto prima la sua faccia inserita in una gigantografia in compagnia di Lucio Dalla e Roberto Roversi, poi le sue parole associate a “Bologna estate, pensiero libero”.

Eppure, è giusto ricordare come Pasolini vedeva Bologna pochi mesi prima di essere ammazzato, in un pezzo uscito sul Corriere della Sera l’8 maggio 1975. Basta leggerlo per immaginare quale sarebbe il suo giudizio della città di oggi.


Bologna, città consumista e comunista
di Pier Paolo Pasolini

Perché prendo come esempio del «discorso» non verbale – e proprio per questo fornito di una forza di persuasione che nessuna verbalità possiede – la città di Bologna? Semplicemente perché Bologna non è una città «tipica» dell’Italia. Essa è un caso unico. Ma nel tempo stesso essa si presenta anche come uno «specimen» molto avanzato per una eventuale e improbabile città italiana futura. La sua anomalia è dovuta al fatto che essa si è «sviluppata» in questi ultimi anni secondo le norme ormai sacramentali dello sviluppo consumistico: ma, insieme, essa è una città comunista. Dunque gli amministratori comunisti hanno dovuto affrontare i problemi che imponeva loro lo sviluppo capitalistico della città…

Tu abiti a Napoli: e tutto ciò ti riesce quasi incomprensibile, naturalmente. A Napoli il povero e caotico sviluppo consumistico è nelle mani di amministratori che gli sono solidali. E così in quasi tutte le altre città italiane. (Quindi, per te, gli amministratori regionali e provinciali sono semplicemente degli antichi corrotti spregevoli viceré. Il «Re» è altrove, e altrove sta cambiando radicalmente forme e modalità. I viceré lo intuiscono, ma la loro torpida coscienza non ne sa nulla. Si comportano perfettamente, invece, per quanto riguarda la transizione: sono ritardati d’aspetto e di mentalità, molto avanzati nell’accettazione cinica del nuovo corso del potere, cioè dei suoi nuovi modi di produzione…)

Ma veniamo al discorso – riassunto – della città di Bologna. A te essa dice: «Caro Gennariello, ammira. Io sono una opulenta città del Nord che lo sviluppo ha reso ancor più opulenta: opulenta al punto da sembrare una città francese o tedesca. Se tu dovessi emigrare qui, la tua coscienza non potrebbe non essere ininterrottamente ammirata di questo fatto. Inoltre, qui siamo comunisti, e quindi puliti e onesti. Anche questo è un privilegio, rispetto al mondo da cui tu provieni. Naturalmente, se tu dovessi emigrare qui, non potresti che votare comunista. Queste due “grazie” – la ricchezza e l’amministrazione comunista – creano un ottimismo democratico che non potrà non gettarti in uno stato di estatica prostrazione, prima, e poi renderti un catecumeno del resto neanche troppo fanatico…»

A me la città di Bologna dice: «Io mi confronto con la Bologna che tu hai lasciato una trentina di anni fa. So che mi ammiri e che mi consideri ancora la migliore città d’Italia, seconda solo a Venezia anche per quanto riguarda la bellezza. Ma so anche che qualcosa di me ti delude o ti divide. Non è il rimpianto per quella città di trent’anni fa che ormai non c’è più, pur conservando intatta la sua forma: ciò che ti delude e ti divide è la constatazione di ciò che io sono nel presente. Ë attraverso il tuo carattere e la tua cultura, che qui infatti ti parlo. La mia oggettiva realtà non avrebbe parole per te. La prima e unica proposizione del mio silenzio sarebbe: “Io ti sono estranea e incomprensibile”. Se, attraverso il tuo carattere e la tua cultura, posso ancora parlarti, ciò è merito della funzione conservatrice che qui ha avuto il partito comunista. Sei perciò tentato di stabilirti qui, di lavorare qui, di abitare magari nella casa di via Zamboni dove sei nato o in quella di via Nosadella dove hai passato l’adolescenza e scritto i tuoi primi versi. Ma lo stesso fenomeno – cioè il fatto che io sia una terra separata, un’isola – che tende a trattenerti qui, ti respinge quasi spaventato nei luoghi non privilegiati dalla mia felicità. L’estraneità di un centro urbano e di una zona industriale praticamente estesa a tutta la campagna – ormai presi nel giro che porta a un futuro sostanzialmente diverso da ogni passato che tu conosci – naturalmente ti traumatizza. Vedere il sabato sera una baraonda che ricorda il Quartiere Latino, col trionfo della coppia e la presenza del teppismo, ti sconvolge. Il vantato gioco democratico (come dice il tuo amico Scalia) con assemblee, partecipazioni, autogestioni, ti mette a disagio. Ma io so che ciò che più di ogni altra cosa ti rende ansioso e quasi angosciato per quanto riguarda il mio fenomeno, è il fatto che io ponga problemi riguardanti lo sviluppo consumistico transnazionale a una giunta comunista regionale. La quale nel risolvere quei problemi li accetta. E accettando quei problemi – nella pratica, che è sempre una teoria ancora non detta – essa accetta anche l’universo che li pone: cioè l’universo della seconda e definitiva rivoluzione borghese. Ciò che una città italiana è diventata – sia bene o sia male – è qui accettato, assimilato, codificato. Nel momento in cui sono, insieme, una città sviluppata e una città comunista, non solo sono una città dove non c’è alternativa, ma sono una città dove addirittura non c’è alterità. Prefiguro cioè l’eventuale Italia del compromesso storico: in cui nel migliore dei casi, cioè nel caso di un effettivo potere amministrativo comunista, la popolazione sarebbe tutta di piccoli borghesi, essendo stati antropologicamente eliminati dalla borghesia gli operai…»

Ma su questo punto, Gennariello, ci fermeremo più a lungo quando ti parlerò dei tuoi coetanei: in cui riscontreremo, insieme all’imborghesimento psicologico, anche fenomeni di regresso a quella specie di barbarie che è stata sempre considerata la cultura popolare, e quindi fenomeni di differenziazione – storicamente inedita – dalla norma…