In questi giorni concitati e agitati a causa dell’emergenza COVID-19 (ai più coronavirus) sta girando un video di un servizio Rai del 1969 dedicato all’influenza di Hong Kong. Una bella carezza protettiva e rassicurante: l’Italia del boom economico, il bianco e nero e quella sensazione di “si stava meglio quando si stava peggio” tanto anelata in questi anni dominati da nostalgia e retrofutrismo. «Hai visto? C’erano 13.000.000 di persone a letto e 5.000 decessi senza che ci fosse tutto il casino di divieti che c’è adesso!». E come controbattere a un’affermazione del genere, se nel suddetto servizio il tono usato dal giornalista e la musica in sottofondo sono quelli che abbiamo imparato ad associare a servizi in cui si discute se per l’estate sia più gettonato il bikini o il costume intero?
Un modo c’è in realtà: i numeri. A oggi il tasso di mortalità dovuto al COVID-19 è (a livello globale) circa del 3%, vale a dire che, se si arrivasse ai 13.000.000 di contagiati dell’influenza del ’69, i passati a miglior vita sarebbero 390.000, non una cifra sulla quale si può sorvolare. Poi, per carità, è noto che i decessi riguardano le fasce più anziane che già presentano un quadro clinico complicato e quindi i numeri potrebbero essere sensibilmente inferiori, però, ecco, non c’è da scherzare. In realtà, ciò che colpisce di quel video non è tanto che prima le cose si facevano meglio, senza troppe paure e patemi. Colpisce che l’Italia, stringi stringi, è rimasta quella del 1969. E per due motivi.
Chi siamo? Da dove veniamo? Cosa facciamo? Dove andiamo?
Sì, bisogna partire dagli interrogativi filosofici sull’esistenza. E la risposta data dal Governo tramite il decreto pubblicato ieri è che in Italia c’è la famiglia, il lavoro, la tv, il partito, il sindacato, le feste comandate e il calcio la domenica. Punto. Sia chiaro, chi scrive, in una delle sue vite ideali sarebbe un animale da divano che, quando non impegnato nella visione di una partita, leggerebbe anche i forum dell’Eredivisie: non è una questione di calcio oppio dei popoli, ma di quella che è l’immagine della vita sociale di un Paese. E in questa immagine, una volta timbrato il cartellino a fine giornata si spegne la luce. In questa immagine non esistono concerti, party, festival, mostre, musei, libri, teatro, danza, gallerie, festival, cocktail e ristoranti. Non esiste un’economia legata a questi settori, né lavoratori.
Un po’ come nonna che, a meno di non essere medico, ingegnere o professore, continua a chiederti che lavoro fai. Il modo superficiale con cui viene indicata la sospensione di tutte “le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli” a meno che non si riesca a garantire il rispetto del metro di distanza è segno di un’approssimazione estrema: un’indicazione che si deve per forza supporre scritta da chi non è mai stato a un concerto o vede il club – anzi, la discoteca – come un luogo in cui ci si va per sbaglio a Ferragosto o a Natale. Un accessorio. Per non parlare poi del discrimine temporale tra la sospensione delle lezioni scolastiche, 15 giorni, e quella di “manifestazioni, eventi e spettacoli”, 30 giorni: cosa è se non un’ammissione della sacrificabilità di tutto il mondo degli eventi e dell’intrattenimento? “Ma che contratti… Passione ce vole!”, direbbe Sergio di “Boris”. Sì, certo, va tutto avanti a passione. Le cose vere, quelle serie e da adulti, sono altre: quelli lasciamoli lavorare in santa pace, voialtri statevene a un metro di distanza.
Cristo sta ancora a Eboli
Il secondo e drammatico aspetto emerso ieri dai decreti e dal discorso alla Nazione del Presidente del Consiglio Conte, è che siamo ancora il Paese in cui da Sud si emigra per andare a lavorare negli apparati statali a Roma o nelle aziende private del Nord – con l’eccezione degli espatriati, quella sì una novità degli ultimi 20 anni. E in un Sud con una popolazione in decrescita, le infrastrutture e i servizi rimangono quelli per un motore con i giri al minimo, pazienza poi se in estate o a Natale c’è un po’ di traffico in più o c’è più fila al pronto soccorso. Il timore che ieri ha spinto a misure così dure è stato quello di un collasso del sistema ospedaliero: se al Sud ci fosse lo stesso numero di contagiati del Nord, dove già ci si barcamena a fatica, l’emergenza sanitaria si trasformerebbe in un problema di ordine pubblico. Non si investe in sanità pubblica, non si investe nel Sud del Paese ed ecco che decenni di politiche volte all’autosussistenza rendono estremamente difficile fronteggiare una qualsiasi emergenza, che si trasforma immediatamente in una minaccia globale.
Come usciremo da questa storia è difficile prevederlo: magari tra un mese sarà tutto alle spalle, magari anche solo tra 15 giorni, qualora il morboso conteggio di contagiati e deceduti che dalla Protezione Civile rimbalza su giornali e siti dirà che i numeri stanno andando verso il basso. Ne usciremo diversi? Forse singolarmente sì, speriamo anche collettivamente, per evitare di scoprici nel 2069 ancora uguali a cent’anni fa.