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Dpcm del 21 marzo 2021: Divieto di non uscire

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Scritto da Simone Muzza il 18 aprile 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

Reagii con scetticismo alle prime notizie. Ricordo di aver preso in giro una collega preoccupata che voleva starsene a casa e non prendere più la metropolitana. Si prese pure qualche giorno di malattia, lei che mi aveva chiesto di lavorare il 2 gennaio. È la maledetta solita ironia che ci tiranneggia, caro David.
Fin dall’inizio vissi come sempre: una bella corsa mattutina, ufficio dalle 10 alle 19, pranzo coi colleghi in trattorie sempre più vuote, in strade sempre più vuote. Trovammo un tavolo da Fiore senza prenotare, l’ultima volta, e incredibilmente ci offrirono anche l’amaro. Con il senno di poi quello fu un segno premonitore inequivocabile.

Un po’ brillo, dopo il Fernet-Branca, ricordo di aver urlato in via Tortona: “Dove cazzo siete tutti?”.

A casa ovviamente: molti avevano già capito l’andazzo. Era il 5 marzo, il mio ultimo giorno di lavoro in ufficio. Nonostante tutto, sono (ero?) uno che si informa: all’inizio parevano quindi le solite esagerazioni, ma figurati, gli allarmisti, le scie chimiche, i no-vax… Eppure sia le scuole che le squadre di calcio giovanili erano già chiuse, e un paio di giorni alla settimana lavoravo (impazzivo) da casa. I bambini si sentivano in vacanza, e mia moglie era ancora in negozio quando si arrabbiò perché li avevo mandati da soli a giocare al parco. Certo, il piccolo aveva cinque anni, però il grande ne aveva undici. A me parve prendersela per niente, manco ci fosse stato un virus nell’aria. Fatto sta che niente sesso per qualche giorno, insomma, nessuna novità. Ma non la presi seriamente, e così anche sabato 7 marzo, il mio ultimo sabato, andai in bici al mercato (con i bimbi ovviamente, mia moglie lavorava) a comprare il pesce. Avevo organizzato una mangiata con gli amici. Sarebbe stata la nostra ultima cena in compagnia, una cena memorabile, e meno male che la organizzai.
Eravamo ubriachi fradici quando alle 2:18 di notte il premier Conte annunciò il primo lockdown. Con alle spalle un paio di bocce di vino e 4-5 cocktail a testa,
sembrava tutto uno scherzo. Almeno, dicevano i ragazzi, se la polizia li avesse fermati alla prima chiusa sul Naviglio (distanza da casa in linea d’aria: 80 metri), sicuramente non gli avrebbero fatto il palloncino visto il Coronavirus.

Ma era tutto vero. Come era vera la lettera “anonima” dei vicini per il troppo casino. Cazzo: sabato sera (organizzavo una cena ogni due/tre mesi), tutti a letto alle 3, il Presidente del Consiglio in diretta e questi si lamentano.

A certa gente gli sta bene il lockdown, è un cerchio che si chiude.

Immaginai i vicini sotto di noi, 24/7, che goduria, pensai, con i bimbi che impazziscono in casa, che saltano, urlano, piangono e cantano, con le due sessioni di allenamento incontestabili, visto che è proibito correre in strada, con la musica tutto il giorno sul balcone perché ci sono 30 gradi e tutto il resto.

Ma ora non m’interessa più.

È passato più di un anno da quel sabato sera. Decreto dopo decreto, di quindici giorni in quindici giorni, sempre nel week-end e preferibilmente di sera, non più a reti unificate ma in diretta video su governo.it, il Presidente del Consiglio suggeriva piccoli sacrifici, “stare più distanti oggi per abbracciarci con più calore domani”, poi è arrivata la cassa integrazione, dopo la disoccupazione, a breve il reddito di cittadinanza, e chissà, tra qualche mese i soldi del Monopoly.

Ma io non voglio più abbracciare nessuno, mi è passata la voglia.

Ho la barba lunga e i capelli come Gesù.
A casa sto bene: sveglia alle otto, torta fatta in casa e caffè, allenamento, doccia, lavoro, pranzo, lavoro/lettura/scrittura, giochi, cena, lettura o film, sesso (forse), nanna. La spesa ogni tre settimane. Il week-end a cucinare. Le pulizie. Routine. Qualche telefonata non più video. Senza passato, senza futuro, solo presente. Un giorno alla volta.

Il problema è l’ultimo Dpcm del 21 marzo 2021, quello che sancisce il divieto di non uscire.
Le forze dell’ordine mi hanno già telefonato perché gli risulta che la cella del mio telefono non più smart supera il limite delle nove ore al giorno a casa concesse per dormire e vestirsi. Ho tempo fino al 31 marzo per mettermi in regola.
Moglie e figli, pazzi di gioia, sono partiti per il mare. Io non me la sono sentita. Penso che mi barricherò dentro, ho cibo a sufficienza per sopravvivere ancora qualche anno, soldi sul conto corrente, alcol a volontà.
Lasciatemi solo, in pace. Non chiedo di più.

Rozzano Vecchio, 31 marzo 2021