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Alberario di Sempione

Sapere che Milano ha circa 200 specie arboricole, e in Sempione ce ne sono almeno 70, apre la questione: chi sa dare i nomi agli alberi? L'alberiario è una semplice guida per riconoscerne almeno trenta

Scritto da Piergiorgio Caserini il 18 maggio 2023

Elaborazione AI di Natalia Polvani

La natura ha tanti colori. Soprattutto tanti, tanti verdi, come ben sapete. Qui noi potremmo parlarne infinitamente, perché ne siamo dei cultori, un po’ per biografia, un po’ per nostalgia un po’ perché cosa c’è di meglio che passare una giornata nel verde. Ci piacciono gli alberi, ci piacciono gli odori di tiglio che ci colgono e riassemblano i ricordi scoppiettanti degli autunni in bicicletta, e l’insostituibile fresco e lungo profumo dei salici e la dolcezza del glicine. Ci piace anche l’odore dell’erba quando ci si posa la testa, e pure godiamo un poco di quell’arrossamento e quel prurito puntellinato da neorealismo, che tartassa cosce e polpacci quando il prato è fresco e appena tagliato. Avrete già inteso che di questa passione verdeggiante, che predilige il rurale ma sdegna il bucolico – termine che designa trappole mangia soldi e devianti per turisti – potremmo parlarne per ore, potremmo addirittura scegliere di cominciare da uno splendido verso di Andrea Zanzotto (Maestro!), che nella sua raccolta Meteo scriveva della strenua ricerca dei «verdi sotto ai verdi», espressione che mi ha sempre lasciato quel sapore di stucco, stupore e sogno, perché chiedersi cos’è un verde sotto a un verde lascia storditi, perché quel che c’è c’è sotto un colore non si può proprio immaginare, cosa c’è sotto al verde di uno stelo?, ma poi, sarà di verde che parliamo quando sta sotto a un verde o sarà qualche altro colore?, e sarà mai possibile dare un nome a tutti i verdi o tutti verdi saranno, a un certo punto, obbligati all’omogeneità dell’esser detti verdi? Non c’è alcuna necessità di rispondere a simili domande ma è tutto sommato bello porsele, perché introducono a un gioco poetico che non ha ragioni di risposte, e semmai introduce a una questione: tutti i verdi tendono a essere percepiti come un amalgama, nonostante per natura biologica i nostri occhi siano portati a sapere molto più dei verdi di quanto non sappiano degli altri colori. Aggiungiamo poi che vivendo in città, nell’urbe che per storia biografica sua predilige i grigi, la capacità di distinguere verde da verde si tramuta nella difficoltà di saper dare un nome agli alberi che s’incontrano, nonostante Milano possieda circa 170mila alberi e 200 specie, dato che alza il vociare invidioso delle più verdi città d’Europa.

Chi sa riconoscere un tiglio? Chi un acero? Chi un pino dell’Himalaya, una sofora, un frassino o un tasso?

Parliamo quindi del verde a Milano e nello specifico di Parco Sempione, che non sarà il più grande della città ma con i suoi 370mila metri quadrati e la foltissima frequentazione di certo si candida a luogo ideale per fare esercizio del verde. Soltanto qui ci sono circa settanta specie arbustive, di cui non poche sono deputate alla fioritura invernale. Ma per parafrasarvi la primavera, trovate cedri eleganti, alberi di Giuda che deflagrano in rosa a primavera petecchiando pure il tronco, paulonie con grappoli violetti rivolti al cielo, il maestoso noce del Caucaso che si tende per sfiorare l’acqua assieme a un timido tamerice e al salice piangente. I laghetti occorrono a questo, poi: ad alcove cangianti per i ramuncoli degli alberi, che come ben si sa godono della presenza di stagnetti. Le bacche dei bagolari attirano uccelli variegati, golosi di quelle ciliegine nere e gialle, altrimenti amare per il palato di noi altri.

In Sempione una cosa è certa: ci sono alberi e fiori da tutto il mondo, e in tal senso è appropriato dire che quando ci si passeggia lo si può pensare come giardino botanico, o hortus conclusus: uno strano paradiso, una strana anticipazione arboricola. Qui si sentono odori e si toccano foglie che hanno i toni e i tatti del continente africano e americano, della Cina, del Nord Europa più freddo e stepposo, ci si immerge nei viola e nei rossi, nei gialli e nei neri, sempre rimanendo abbacinati da quella psichedelia implicita nel rigoglio della natura. Ma una cosa è certa: occorre imparare a fare attenzione. Possiamo certo parlare di numeri di specie e di quantitativi arborei urbani, ma senza un’educazione appropriata è decisamente complicato riconoscere un albero dall’altro, distinguere una foglia da un’altra foglia, una seghettatura da un lombo morbido. Tutto passa in sordina, ai margini del mondo che sono poi i margini del linguaggio. Chi sa riconoscere un tiglio? Chi un acero? Chi un pino dell’Himalaya, una sofora, un frassino o un tasso?

Fusti, rami e cortecce, frutti piccioli e stagioni, foglie, lobi, dentelli e venature.

L’attenzione al verde è in fondo una certa inclinazione al sensibile che comincia con un disorientamento, un perdersi nel groviglio di foglie e di frasche, e che prosegue con l’apprensione dei nomi, dei caratteri e delle espressioni arboree. Fusti, rami e cortecce, frutti piccioli e stagioni, foglie, lobi, dentelli e venature, c’è insomma un momento in cui tutto concorre a riconoscere nell’albero qualcosa di più che un ornamento o un mero palliativo quantificabile in abbattimento di CO2. S’impara a conoscere attitudini, preferenze, soddisfazioni e turbe e malinconie del verde. Vorremo quindi dirvi che questo è il modo di vivere i parchi, o meglio: questo è il modo che più degli altri manca. Perché in termini di attività, tra runners e giocolieri, suonatori strampalati di chitarra e ciclisti, salotti nell’erba a là Manet e domeniche pomeriggio a là Seurat, tutti abbiamo più o meno la stessa idea di parco pubblico: un luogo per staccare e dedicarsi all’eleganza del nulla, per mangiare schiscette e bere stagni di birre passando un pomeriggio al sole giovane di maggio.

Così, nel Parco Sempione v’è concesso di imparare quell’inclinazione al sapere che ritrova nel vedere qualche senso delle cose, quel divertimento a dare i nomi a quel che si pone davanti. Percorsi in mezzo agli alberi e agli arbusti, con tanto d’ombra di ristoro. Targhette affisse ai fusti, per imparare la prima volta a riconoscere un faggio, un frassino, un acero o un noce. Ci si spenderanno delle ore, ma capirete presto che saper dare un nome a quel che a tutti gli effetti è dato per “cosa”, per “cosa abituale”, o semplicemente per “albero” o “verde”, farà sì che la realtà vi si popoli più di quanto v’aspettiate.

L’alberario di Zero è uno strumento e un invito a riconoscere i volti degli alberi, dove per volto d’albero intendiamo ogni sua foglia.

Insomma, la domanda è una: chi sa riconoscere un albero? Tutti. Tutti sanno cos’è un albero. Ma pochi, pochissimi ne ricordano invece i nomi. Un po’ come incontrare di tanto in tanto una persona e non ricordai mai, ma proprio mai, come si chiama – nonostante vi sia stata presentata tempo addietro. Nonostante magari sia vostra madre. Questa cosa in diagnosi si chiama prosopagnosia, ma per quanto riguarda gli alberi va bene anche disattenzione. L’alberario di Zero è uno strumento e un invito a riconoscere i volti degli alberi, dove per volto d’albero intendiamo ogni sua foglia. Lobate, a cuore, palmate o a ogiva, composte o pennate, a coppia o a grappolo, seghettate o meno, con apici acuti o inclinati e peluria aranciata e nervature spesse, con pigne pendule e fruttini globulari, insomma: basta che ricordiate la forma di una foglia per sapere della sofora, del bagolaro, del tiglio o della robinia o del tasso o della farnia. E li trovate tutti in Parco Sempione.

ALBERARIO

[Scritto da Piergiorgio Caserini ed elaborato in AI da Natalia Polvani]

Abete Rosso
  1. L’abete rosso è superbo, tocca il cielo con i suoi quaranta metri d’altezza una rettitudine impensabile, aghi verde scuro e fioritura sgargiante dai colori della Roma: rosso giallo per i maschi e rosso-violaceo per le femmine.
    Acero Americano
  2. L’acero americano è molto più piccolo dell’abete, ma le foglie pennate e senza dentelli danno carezze indimenticabili, proprio come i fiori penduli in fasci di stami rossastri e filamenti verdini. Adora le zone umide.
    Acero Campestre
  3. L’acero campestre è quello più facile da riconoscere, perché sta pressoché ovunque e i frutti sono le classiche libellule – o elicotteri – che cadono molli e lenti dal cielo in autunno. La foglia a cinque lobi arrotondati, verde intenso, è un classico.
    Acero di monte
  4. L’acero di monte porta la rotondità delle foglie del campestre ai toni ruvidi e spigolosi della montagna: dentellata e a picciolo lungo, verde opaca sopra e chiara sotto, non sdegna sfumatura rossastre di tanto in tanto e fa frutti volanti come il fratello campestre. Non appartiene alla pianura, ma ci si trova bene comunque. Soprattutto come botte per il vino.
    Acero Riccio
  5. L’acero riccio ha i denti più acuti e arcuati che si possano vedere, che prolungano le cinque lobature in scampoli sottili. Sta bene ovunque, dalla pianura alla montagna, ma predilige il fresco.
    Albero di Giuda
  6. Albero di Giuda: nome troppo esplicito, fusto relativamente piccolo, di otto metri, molto molto irregolare, con chioma espansa, rada ed elegantissima. Le foglie qui sono tondeggianti con aggancio a cuore, d’un verde grigiastro, da cera.
    Bagolaro
  7. Il Bagolaro è dritto e perfetto, da qui il nome dal bastone: “bagola”. Cresce molto in fretta, è cilindrico e con una chioma foltissima di foglie a ogiva estremamente seghettate, con tre nervature principali e ben visibili. Lo riconoscete non dai fiori, che sono poco appariscenti, ma dai frutti baccosi simili a ciliegine verdi, gialle e poi nere. Frequentatissimi da uccelli che vanno ghiotti per le suddette bacche.
    Catalpa
  8. La Catalpa ha foglie enormi, a forma di cuore, con l’apice curvo. Crescono a due a due, al massimo tre per ramo. Se le foglie potete confonderle con la paulonia, badate ai frutti: lunghe trecce cilindriche simili a legumi.
    Cedro dell’Atlante
  9. Il Cedro dell’Atlante nella migliore delle condizioni (selvatico) raggiunge i quarantacinque metri d’altezza, con chioma piramidale che va incredibilmente ad allargarsi verso l’alto. Per il resto, le foglie sono aghiformi – è un sempreverde – con l’apice trasparente. Lo riconoscete dalla pigna tozza e dal profumo del legno.
    Cedro dell’Himalaya
  10. Il Cedro arriva anche dall’Himalaya, ed è più alto ancora: sessanta metri. Aghiforme, un po’ più spelacchiato del Cedro dell’Atlante, con pigne che sembrano ovetti. Grande valore ornamentale, richiestissimo e presentissimo in tutte le città.
    Cipresso Calvo
  11. Il Cipresso Calvo è tra gli alberi preferiti di Milano. Ce ne sono parecchi nei parchi storici, e può campare fino ai mille anni. Tronco dritto e unico, base possente, con foglie aghiformi e decidue – due filari d’aghi paralleli –, mentre le pigne paiono sferette grandi quanto una ciliegia.
    Cipresso della California
  12. Il Cipresso della California, sempreverde anche lui, ha le foglie come piccole squamette che vestono i rametti. Molto ben profumato e particolarmente apprezzato per il mobilio.
    Faggio
  13. Il Faggio: forestale per eccellenza, amante delle altitudini appenniniche e alpine, superba l’impalcatura con la chioma espansa verso il cielo, a far ombra ballerina nei boschi. Le foglie sono ellittiche e un po’ appuntite, lucide, solide e d’un verde brillante. Fa minute castagne avvolte da flebili aculei, dette faggiole.
    Farnia
  14. La Farnia è albero che predilige la pianura. Lo trovate tra i filari e nei boschi golenali derelitti. La foglia è distinguibilissima: ellittica, allargantesi verso l’esterno, con diverse lobature simmetriche e arrotondate, con consistenza quasi erbacea e ghiande.
    Frassino
  15. Il Frassino, dal legname prezioso, apprezza indubbiamente i corsi d’acqua. Qui le foglie sono composte e pennate, con sette o quindici foglioline a ogiva con apice acuto e bordi seghettati, nonché infiorescenze pendule a corallo, che compaiono prima delle foglie.
    Gingko
  16. Direttamente dalla Cina il Ginkgo è una conifera con una chioma fittissima di foglie larghe a ventaglio dal picciolo lungo, con venature lineari e non reticolate. Frutti maleodoranti a ciliegia-testicolo.
    Ippocastano
  17. Ippocastano: tra i nomi più belli d’albero, la cui foglia è usata pure in farmaceutica, cosmetica e tintoria. La riconoscete per la foglia palmata, con cinque o sette foglioline ovali e dentellate, che s’allargano verso l’apice e disposte a raggera. I frutti sono altrettanto distinguibili: grasse castagne globose.
    Liquidambar
  18. Liquidambar: arrivato dall’America, a crescita lenta e fino ai quaranta metri se trovato selvatico. Le foglie sono a cinque lobi acuti e molto seghettate. Possono essere scambiate per foglie d’acero, ma lo riconoscete per i frutti: agglomerati di globi spinati grandi come pallette da ping-pong.
    Magnolia
  19. Come ben si sa la Magnolia ha ispirato nomi e canzoni, tutto grazie all’eccezionale fiore cremato e carnoso che spunta in continuazione tra maggio e settembre. Per il resto dei mesi, guardate alle foglie: ellittiche con i margini rivolti, verde scuro sopra e rugginose sotto.
    Noce del Caucaso
  20. Il Noce del Caucaso è innanzitutto maestoso: quelle chiome folte ed espanse, basse, predilette per l’ombra. Le foglie dentellate all’estremità sono a gruppi che arrivano fino alla ventina, attaccate a piccioli lunghissimi.
    Orniello
  21. Tipico della macchia mediterranea è l’Orniello, produttore antico della “manna” (sapete: «la manna dal cielo»), ovvero una secrezione zuccherina che veniva usata a scopo medicinale. Tronco tortuoso e sopra foglie pennate a gruppi di dieci al massimo, con apice acuto e margine seghettato. Le riconoscete ben dai fiori di maggio: grappoli densi, profumati e color crema al vertice dei rami.
    Paulonia
  22. La Paulonia si distingue per le foglie grandi a coppia e a forma di cuore, pelosette, e dai fiori violetti grandi e a campanula con cinque lobi, alzato da una pannocchietta.
    Pino del’Himalaya
  23. Il Pino dell’Himalaya è altissimo, in tutti sensi: cresce fino a 2500 metri ed è alto cinquanta metri, con tanto di chioma piramidale – un po’ rada – a slanciarlo. Aghiforme, lo riconoscete al volo per la classica pigna pendula a banana impregnata di resina.
    Pino Strobo
  24. Il Pino Strobo va a quaranta metri, ed è, come ogni pino simile agli altri pini. La pigna si distingue con tanta attenzione per essere un po’ più curva e piccola rispetto al Pino dell’Himalaya.
    Pioppo Cipressino
  25. È il momento di un must: il Pioppo Cipressino. Una colonna ramosa fin dalla base, con rami paralleli al tronco, fino a trenta metri. Le foglie sono romboidali con apice appuntito e dentelli fini. Tipico del paesaggio lombardo e affezionato all’umidità, nasce in verità nell’Appenino umbro-marchigiano.
    Platano
  26. Il Platano è celebre per la potenza dei tronchi e la maestosità della chioma, così come per l’inconfondibile corteccia liscia e squamosa. Foglie da cinque lobi appuntiti e base a cuneo con peluria ruvida. I frutti sono pallette da ping-pong con peletti attorno. Ottimo per i falegnami.
    Robinia
  27. Pochi sanno che della Robinia si possono mangiare i fiori come frittelle, ma che il legno è un po’ tossico. Sono come legumi appiattiti marrone scuro, mentre le foglie a penna, ellittiche e arrotondate, le trovate a gruppi di massimo una ventina e ramificatissime.
    Tiglio
  28. Il Tiglio, re dei viale alberati, che scoppietta d’autunno rilasciando le piccolissime noci globulose a scendere come elicotteri. Slanciatissimo, dai rami sottili e chioma ovoidale e folta, si presenta con foglie medio-piccole, a forma di cuore con apice allungato e margini seghettati. Distinguibile da un simpatico dettaglio: peluria aranciata nell’ascella delle nervature.
    Tasso
  29. Il Tasso può arrivare fino a 2000 anni. Impressionante. Prezioso per ebanisti, resistente a climi severi, potature, malattie, velenoso nelle foglie. Un sempreverde dalle foglie aghiforme e appiattite, con semi duri circondati da una tazza rossa e carnosa.
    Sofora
  30. La Sofora è innanzitutto tortuosa. Poco regolare, bassa e cadente, con foglie pennate ed ellittiche raggruppate in file da una quindicina massimo, con fuori bianco giallognoli a grappolo tra luglio e agosto e frutti come legumi marroncini e strozzati qua e là, tra seme e seme.