Ho sempre pensato all’arte come a un incontro: ogni volta che mi accingo a visitare una mostra ho la stessa sensazione di un appuntamento con una persona e le emozioni oscillano tra la curiosità eccitante della prima volta e la rilassante euforia dell’intimità generata dal tempo. Una volta varcata la soglia succedono sempre tante cose, la mostra diventa un pezzo di vita, un’esperienza vera e propria con le sue gioie e i suoi dolori. Ci sono volte in cui il lavoro dell’artista, il percorso creato, l’atmosfera, la sensibilità, tutto si unisce in un climax verticale che porta alla sublimazione totale delle emozioni. Si prova eccitazione, passione, ardore, tutto ciò che esula dal dualismo e che diventa un unicum, un’esperienza totale che fa rizzare i peli mentre ci entra dentro e si appoggia in quello stato sensibile e indelebile che sta subito sotto la pelle. I fattori che concorrono a questa esperienza sono tantissimi e non basta replicarli tutti pedestremente per ottenere lo stesso risultato: è un processo alchemico misterioso che non rispetta regole trascrivibili ma un insieme di conoscenze pratiche e sensibili che si combinano sempre in modo differente. Se mi avvicino a ciò che conosco, c’è un posto a Milano che ha una densità tale da saper generare più volte la miscela perfetta di questi incontri con l’arte epidermica.
Sono entrata per la prima volta al Pirelli HangarBicocca tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013. Mi ero trasferita a Milano per finire gli studi e mi è stato fatto capire che era uno di quei luoghi che avrei dovuto iniziare a frequentare con assiduità, e in effetti così è stato (questa storia non sarà esaustiva perché inizia con me e con il mio arrivo in città, ma la storia di Hangar inizia nel 2005 con la mostra di Mark Wallinger, delle pareti scrostate e delle lamiere al posto delle vetrate).
Anselm Kiefer, I Sette Palazzi Celesti
La prima estasi che mi ha donato è stata potente, lo ammetto. Nell’imponenza della sua mole architettonica e del suo buio magistralmente gestito, ho conosciuto i Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer. Avevo già visto altre sue mostre e opere ma quello che avevo davanti era, ed è, di un altro livello. L’installazione permanente che l’Hangar (abbreviazione con cui ormai è connotato) ha scelto per sé stesso è qualcosa di assolutamente ben riuscito. Una commistione di sensazioni organiche e sensibili che vibrano sempre in armonia, anche attraverso gli anni. Loro svettano, a oggi ampliati da cinque tele sempre dell’artista, sono entità superiori poetiche nel significato e totalizzanti nell’esistere.
Carsten Nicolai, unidisplay – Tomás Saraceno, On Space Time Foam
In quel periodo c’erano due mostre a popolare gli altri spazi: una incredibile installazione di Carsten Nicolai nelle Navate e Tomás Saraceno nel Cubo. Ricordo perfettamente la sensazione di immenso stupore dinanzi a unidisplay di Nicolai perché non avevo mai visto niente di simile e sicuramente non l’avevo mai visto in una istituzione italiana. Mi sembrava di essere altrove, in una dimensione in cui linguaggi artistici, spazio e tempo avevano trovato un nuovo equilibrio. Ma soprattutto ricordo la bruciante e mai superata delusione per On Space Time Foam di Saraceno: non perché fosse brutta, ma perché non l’ho mai vista. O meglio, perché non ci sono mai salita. Si trattava di un’opera di dimensioni colossali, un vero e proprio universo da vivere e attraversare, una bolla su cui camminare e io non sono riuscita a entrare (perché c’era tanta gente, perché ero stata timida, non lo so ma non mi perdonerò mai).
La sublimazione totale dei miei sensi, quella che ancora oggi è la mostra numero uno della mia classifica: The Visitors.
Ragnar Kjartansson, The Visitors
Ma non è passato molto tempo prima che io varcassi nuovamente la soglia dell’Hangar e raggiungessi la sublimazione totale dei miei sensi, entrando in quella che ancora oggi è la mostra numero uno della mia classifica – imbattuta da ormai dieci anni. Si tratta dell’incontro con The Visitors di Ragnar Kjartansson, se ci penso ancora mi commuovo e penso con dedizione ad Andrea Lissoni che ha marchiato a fuoco tante delle mostre più totali di quegli anni e di Pirelli HangarBicocca. La vera differenza la faceva ogni volta il non sentirsi in una mostra ma dentro al lavoro dell’artista e il modo in cui l’opera The Visitors era installata lo dimostra: nello spazio buio si ergevano dei grandi schermi come ad abbracciarti e ti portavano in un mondo sospeso, dolce e malinconico di suoni e persone. Sono rimasta ore seduta a terra (bisognava trovare la propria posizione da sé) a piangere godendo tantissimo.
Dieter Roth/Björn Roth, Island – Joan Jonas, Light Time Tales – Céline Condorelli, bau bau
Spazi così complessi, ampi e apparentemente senza appigli come quelli dell’Hangar, richiedono una capacità di sviluppo di pensiero laterale, di soluzioni e sguardi alternativi, totalizzante. E in ogni mostra questo si evince: come la densissima installazione di Dieter Roth realizzata a cavallo tra il 2013 e il 2014 grazie al lavoro del figlio Björn Roth e di Vicente Todolì o gli schermi senza fine di Joan Jonas dell’anno successivo, in concomitanza con uno degli allestimenti-percorso di Céline Condorelli, in quegli anni anche mia docente universitaria, che ha la straordinaria capacità di usare lo spazio come parte integrante del suo lavoro.
Juan Muñoz, Double Bind & Around – Lucio Fontana, Ambienti/Environments – Cerith Wyn Evans, …the Illuminating Gas
Ma se torno alle mostre sotto pelle, allora arriviamo a Double Bind & Around di Juan Muñoz del 2015, a cura di Vicente Todolí. Le sculture antropomorfe danzavano in modo quasi macabro nello spazio, erano deformi ma dolci, e tutto era così sospeso da lasciare il segno.
Faccio un salto in avanti lasciando indietro veri e propri pezzi di storia dell’arte che non andrebbero trascurati, ma credo ci sia stato un altro momento molto importante nella storia espositiva dell’Hangar, una presa di responsabilità non indifferente. Ovvero la grande, grandissima, mostra sugli Ambienti di Lucio Fontana tra la fine del 2017 e i primi mesi del 2018. Un lavoro sicuramente molto difficile da portare a termine, un affondo nella storia, cosa prima quasi mai fatta dall’istituzione, ma con un taglio molto preciso sulla ricerca dell’artista caro alla città di Milano, ovvero i suoi Ambienti. Uno dei tanti risvolti avanguardisti del suo percorso, così visionario e totalizzante che, poterlo vivere nel mio presente, è stato disorientante e un onore al tempo stesso.
Altra tappa Cerith Wyn Evans nel 2020 (a cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolí) perché si è manifestata in un momento davvero difficile e confuso per tutti e tutte noi e la sua presenza luminosa, giocosa e ariosa, ha saputo essere un appiglio, qualcosa di solido in un mondo immerso nell’incertezza. Chi attraversava la mostra si sentiva come lanciato dentro una pagina scritta, con appunti frizzanti che si riversavano ovunque portando il pensiero altrove.
Steve McQueen, Sunshine State – Bruce Nauman, Neons Corridors Rooms
In un alternarsi costante di grandi nomi e artisti di ricerca, la programmazione del Pirelli HangarBicocca ha saputo navigare nelle acque tumultuose degli ultimi anni arrivando tra il 2022 e il 2023 con, a mio parere, due grandi punti esclamativi. Sto parlando di Steve McQueen che, rimandato più volte, è arrivato tra le Navate dell’Hangar con un allestimento asciutto e uno sguardo assolutamente netto sul suo lavoro e la ricerca di una vita. E subito dopo di lui la tanto discussa ma tantissimo visitata retrospettiva su Bruce Nauman: un esemplare di mostra unico nel suo genere, con un affondo sul lavoro dell’artista americano forse fin troppo esaustivo ma con una partecipazione da parte del pubblico vertiginosa. Per me, a chiudere la mostra, c’erano due lavori di Nauman che sono felice di aver avuto l’opportunità di vedere: Raw Materials del 2004, un’installazione sonora in esterna con 21 canali che riproducevano estratti di voci a ripetizione creando un corridoio di suono esperienziale davvero unico. E poi Anthro/Socio (Rinde Spinning), un video del 1992 così giusto da essere fastidioso, capace di racchiudere la cosa più complessa nella cosa più semplice. Mi gira la testa al solo pensarci.
Mi rendo conto del rapporto interpersonale che si crea con alcune mostre quando mi ritrovo a pensarle con una certa nostalgia, con la voglia di poterle rivedere e viverle ancora con gli occhi e i pensieri di oggi, di poter condividere con loro una nuova scarica di emozioni. Però le porto sottopelle, soprattutto sui polsi e nella curva del collo dietro le orecchie, si annidano lì e continuano a raccontarmi storie.