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Il Parco Monumento: Parco Sempione

La storia del Sempione attraverso i suoi omonimi, passando per l’Expo del 1906, per le Triennali e suoi alberi

Scritto da Piergiorgio Caserini il 18 maggio 2023

Ph. Marina Caneve

Non sarà il più grande e nemmeno il più verde. Non sarà il più infrascato, il più selvatico, ma nemmeno il più ordinato. Parco Sempione, forse, ha meno a che fare con il parco di quanto ne abbia con l’idea di monumento. – Quest’articolo potrebbe già essere chiuso così, dicendo l’essenziale con le battute di un tweet, e lasciando al lettore la facoltà di esercitare il sogno e l’immaginazione. Ma per evitare soprusi storici e fraintendimenti è sempre bene cominciare sempre dalle basi.

Per cominciare: toponomastica ed etimo con un pizzico di storia. Innanzitutto occorre sapere che il Parco ha a che vedere con tutta una lunga serie di omonimi a cui deve il nome. Innanzitutto ha a che vedere con l’impresa di un traforo omonimo. Sotto al Monte Leone, la più alta vetta delle Alpi Lepontine in Val D’Ossola, venne aperta più di cento anni fa una tratta ferroviaria in galleria che per tre quarti di secolo conservò il primato mondiale di lunghezza. L’imponente opera di ingegneria si inseriva allora in una lunga storia di strade e collegamenti che riguardava la Strada Statale 33 – detta “Del Sempione” – e il passo – omonimo anche questo – del Sempione, nome a sua volta dovuto al minutissimo comune di Sempione, villaggio di 309 abitanti nel Canton Vallese che, come spesso accade nella storia delle tratte commerciali, militari e di vari transiti, ha assunto una tale importanza nella Storia che ha dato nomi a destra e a manca, compreso il nostro Parco, a circa 180 km di distanza. Parliamo infatti di tragitti importantissimi che nel lungo corso della storia, tra mulattiere militari romane, collegamenti commerciali e strategici nel pieno Medioevo, durante la prima fioritura delle grandi città dell’Italia settentrionale e delle leghe cittadine lombarde, poi vie del sale nel XVII secolo e strade carrozzabili sognate e realizzate in parte dal Napoleone, deputate poi al servizio di diligenza postale, con otto ponti e sette gallerie e numerosissimi rifugi, hotel e serragli che ne fecero il collegamento più breve e rapido tra Parigi e Milano, fino ad arrivare al traforo del 1906. Per darvi un’ultima visione sul toponimo, Sempione è un ricordo diretto dal latino: Summo Plano, a ricordare l’ampissimo altopiano glaciale che assicura la giunzione della valle padana alla Val d’Ossola e la val Divedro assieme alla valle della Saltine, che congiunge invece la valle del Rodano. Insomma, da qui, da Parigi passando per Ginevra e valicando le Alpi si arriva a Milano, imbroccando l’omonimo Corso (Napoleonico) e giungendo infine al Parco Sempione.

Non c’è milanese – per nascita, per caso o per vocazione – che non abbia mai passato un pomeriggio al Sempione.

Ebbene sì: il nome del Parco arriva dal Traforo, mentre il nome del Corso – detto altrimenti asse – arriva dalla via, dal passo, circa un secolo prima. Pensate che in quel 1906 vennero riprodotti al Parco Reale (poi Sempione) i due portali del traforo ferroviario a grandezza naturale. Questa esibizione di cotanta tecnica e magniloquenza è dovuta alle intenzioni dell’Expo: proiettare la città nel mondo, con grandi arterie logistiche tra l’Italia e l’Europa, e tram, linee elettrificate, vie d’acqua, ferrovie sopraelevate… tutto contenuto in un parco. Questo è, più o meno, il parco per come lo conosciamo oggi. Quello di ieri, la versione beta, spunta nel 1888 quando l’Alemagna, prevedendo viali per carrozze, laghetti e belvedere progettò sulla piazza d’armi napoleonica e sui rimasugli del bosco sforzesco un bel giardino romantico su modello inglese, pieno perciò di orpelli celebrativi e selva incantata.

Da quel momento il Parco ha sempre assolto una funzione precisa, a cui non è mai venuto meno: lo svacco, l’ozio, il tempo libero, la quiete viscerale e profonda e fresca e ben ossigenata del verde e delle sue ombreggiature. Non c’è milanese – per nascita, per caso o per vocazione – che non abbia mai passato un pomeriggio al Sempione. Ed è lì, in quelle ore passate a cercar litorali ombrosi o anfratti poco affollati, che ci si rende conto della storia che solca, che trafora, la montagna tutta del Novecento. Perché se il grande EXPO del 1906 lasciò quel gioiello del liberty milanese che è l’Acquario Civico – relegando alla documentazione d’archivio l’anello ferroviario sopraelevato –, dal 1933 il Parco diventa sede per le esposizioni della Triennale di Milano. In questo frangente, di particolarissimo rilievo è la X Triennale, del 1954: una soglia importantissima tra la ricostruzione post-bellica della città e il boom economico nostrano degli anni Sessanta. Quell’anno il Parco venne eletto a vera e propria sezione dell’esposizione, dove progettisti leggendari come i BBPR progettarono il “Labirinto dei Ragazzi” in un boschetto d’alberi del Sempione o la “Casa Sperimentale” – tentativo anacronistico di sintesi tra le arti e decisamente intuitivo, un po’ per il modulare prefabbricato per triangoli equilateri (à la Buck Fuller) o l’ampia visione che confonde interni ed esterni (à la Phil Johnson), nonché per la flessibilità degli spazi. Quel che rimane oggi è l’opera dell’Ico Parisi e del Silvio Longhi: il “Padiglione per il Soggiorno”, edificato sul cosiddetto “Monte Tordo”, che oggi è la Biblioteca al Parco, con tanto di pitture di Bruno Munari. E ovviamente il Bar Bianco, all’attivo ancora oggi, inizialmente dedicato alla vendita del latte e dei gelati per i bambini – da qui il “bianco” – e con piastrelle in ceramica Richard-Ginori – un grande classico che solca ormai quasi centotrent’anni di storia meneghina.

Tutto verdeggia nell’alternanza tra domestico e selvatico, tra le frasche aggrovigliate e i praterelli lunghi, ben distesi e ben tagliati, e nel mezzo si incastonano qua e là architetture in cemento armato imponenti facciate liberty.

Insomma, questo va saputo quando si mette piede nel parco. Quando si vede Accumulazione Musicale e Seduta di Arman – meglio conosciuta come il piccolo-anfiteatro-con-sedie-cementate – nei weekend di bella stagione, con batterie di percussionisti, maestri di djembe e novellini che riassumono una storia più che trentennale di musica che incrocia Ghana e Senegal con Milano. Quando si incontra il teatro continuo di Burri, o la Torre Branca, o la Triennale edificata nel 1933. Pure quando si vede la retrovia del Castello, o i grandi Noci del Caucaso. I faggi penduli che accompagnano il giardino della Triennale, dove svettano i colori dei Bagni Misteriosi di De Chirico o il Teatro di Mendini.

Tutto questo, tutta la storia, tutti i Sempione, tutte le installazioni e le architetture rimaste da più di un secolo sono ammantate di verde. Ed è qui che l’Alemagna, dopo tutto questo tempo, sembra aver completato appieno quell’idea di giardino all’inglese. Tutto verdeggia nell’alternanza tra domestico e selvatico, tra le frasche aggrovigliate e i praterelli lunghi, ben distesi e ben tagliati, e nel mezzo si incastonano qua e là architetture in cemento armato imponenti facciate liberty. Più di settanta specie arboricole giocano a far l’ombra, allietando i picnic e i runners ma anche le decine di specie volatili che sollazzano e canticchiano e svolazzano tra un ramo e l’altro. Il Bagolo stringe i rami e dispensa acide bacche per passeri, la Farnia adora le ghiandaie, l’Orniello che dispensa la manna, la Robinia di cui si mangiano fiori come frittelle, e poi cornacchie, fringuelli, cince bige, insomma: tra il safari e la guida naturalistica, che per altro c’è con anche due percorsi strutturati tra le anse del Parco. Caso vuole che poi il Sempione, da buon parco lombardo, sia anche particolarmente votato alla nebbia, che qui vi si ferma e vi si insacca con particolare letizia.

Eppure, come ben si sa, le leggende turpi e oscure che abitano le nebbie abbondano, e come pressoché ogni volta il soggetto primario è una dama, alle volte strega alle volte spettro e alle volte bellissima ma coperta da un velo, come quella del Sempione: se mai qualche sventurato prendesse la mano fredda della Dama, verrà portato in camporella in una villa eterea, una villa lattiginosa di nebbia, e soltanto lì essa alza il velo. Un teschio dalle orbite vuote, ma tanto bello che ogni uomo perde il senno, riducendosi a divagar per Sempione alla ricerca della Dama tutta ossa.