Se quarant’anni fa ci fossimo incamminati oltre la ferrovia che dalla stazione di Greco ritaglia la città, ci saremmo trovati davanti a un muro lungo quasi un chilometro. Ma non un semplice muro di mattoni, bensì l’aggregato di ferro e cemento degli stabilimenti Pirelli, alla Bicocca.
Forse quarant’anni fa avremmo anche avuto la fortuna di incontrare Leopoldo Pirelli, il patron di quegli stabilimenti che proprio allora stava maturando l’idea di trasformare l’area , dimostrando una sensibilità sociale rara negli imprenditori dell’epoca: un italiano che non solo aveva cercato di migliorare le condizioni di vita dei suoi operai, anche con attività educative e disponibilità di alloggi, ma che voleva riconvertire un’area industriale in un quartiere di servizi per la comunità. Dunque acume, attenzione, strategia, anche perché l’area della Bicocca aveva e ha dimensioni enormi, slanciandosi lungo Viale Sarca da Segnano fino quasi a Sesto. Ma come inglobare nello spazio pubblico un’area così ampia?
Una trasformazione seconda per dimensioni solo agli interventi nella Berlino Est postbellica.
Nel 1985 un concorso a inviti bandito dalla Pirelli per la riconversione dell’area industriale in polo tecnologico e di ricerca segnò l’inizio di un profondo cambiamento. Fu come una accelerazione dovuta alla percezione della vastità delle trasformazioni in atto, in una città che come Milano sembrava essersi mangiata l’architettura. Gli studi invitati – tra gli italiani Vittorio Gregotti, Gabetti e Isola, Aymonino, Aldo Rossi, Renzo Piano e Gae Aulenti e tra gli stranieri Rafael Moneo, Richard Meier, Frank Gehry e Rem Koolhaas – si trovano subito davanti alla necessità di ripensare un sistema complesso e molto esteso che doveva nuovamente (nel senso di un modo nuovo) riconnettersi alla città. Si trattava insomma di riprogettare un intero quartiere ma a una scala inconsueta. Basti pensare che si trattava di una trasformazione seconda per dimensioni solo agli interventi nella Berlino Est postbellica, per di più con la competizione di grandi studi di architettura accomunati dal desiderio di progettare il tempo.
Non le stecche parallele di Aldo Rossi che puntano verso la torre quasi come un campanile che scandisce le ombre, e nemmeno i monumenti continui di Mario Botta; non la gerarchizzazione di Gae Aulenti in due assi, con un grande boulevard e una piazza che si incastra a diamante nel parco, così come neanche la grande depressione immaginata da Renzo Piano per contrappesare il climax verticale della torre high tech in stile Beaubourg. Nessuna di queste convince Leopoldo Pirelli. Forse perché, insieme alla giuria, egli non cercava una zonizzazione funzionale e neanche una commistione tipologica variegata, bensì più probabilmente i modi possibili in cui un’intera area potesse autorappresentarsi come quartiere. Sarà per questo che alla fase finale del concorso arrivano gli incastri modulari di Gino Valle, un’interessante proposta di Gabetti e Isola volta a una modificazione topografica del parco, innalzato sopra le teste dei cittadini, e infine il progetto che poi risulterà vincitore: quello di Vittorio Gregotti, che ricalca il tracciato di quello stesso lunghissimo muro di fabbrica che era stato demolito, e ne fa un nuovo centro storico della periferia, delineato da corti smisurate e penetrate da percorsi pubblici.
Gregotti progetta una nuova cittadella, un punto di riferimento culturale che si propone come nuova centralità della periferia milanese; un complesso quasi monumentale, per la magniloquenza con cui si impone nel tessuto urbano, ma che non ricerca l’applauso grazie a un linguaggio sobrio e distaccato, che diventa espressione – ed espressivo – più per la postura nei confronti della città che per le linee architettoniche. Le aule del polo universitario e i laboratori si affiancano, fondendosi in blocchi rossi come le red brick university nelle città inglesi ma in una scala sovrumana. Le piazze, nascoste all’interno di questi recinti, si riallacciano alla città, separata da un vasto parco su cui si erge sinuosa la collina dei Ciliegi, cuore materico del luogo e custode delle sue macerie. Possiamo dire che si scelse un progetto mite il quale, quantomeno a parole, non dimostrava quell’estetica del potere che usa contraddistinguersi per la verticalità, la spettacolarità, l’ostentazione del capitale e la promiscuità degli ingorghi. Né si scelse l’edificio alto, che Vittorio Gregotti non amava.
La Bicocca è un brillante cocktail dei flussi ipersonici della Milano contemporanea, e ne mostra i postumi quando si svuota e rimane, per chi ci abita, una dimensione locale che sembra non esistere.
Se oggi, trascorso un quarantennio – e che quarantennio! – ci avventuriamo tra i percorsi serpentini della collina, fino alla cima, immersi tra colorati fazzoletti e profumati kofta portati per l’occasione, possiamo vedere una forchetta di grattacieli fare capolino dietro le fronde dei ciliegi. È un’apparizione che fa pensare che forse, oltre agli edifici, col senno di poi, Gregotti avrebbe disegnato più bassa anche la collina. I vent’anni trascorsi dal concorso alla posa dell’ultimo mattone hanno messo alla luce una difficoltà intrinseca dell’intervento: coagulare la cittadella in un vero e proprio grattacielo orizzontale. Tanto è vero che alla fine il nuovo centro storico della periferia ha dovuto modificare il programma, introducendo residenze dove non erano state pensate. Non si può negare che l’intervento si è posto nella Milano odierna come nuova centralità metropolitana nella periferia, punto di riferimento di studenti e lavoratori, per amanti del sipario e star filodrammatiche pronte a esibirsi sul palco del teatro degli Arcimboldi.
Oggi la Bicocca è un brillante cocktail dei flussi ipersonici della Milano contemporanea, e ne mostra i postumi quando si svuota e rimane, per chi ci abita, una dimensione locale che sembra non esistere. Non un grido di un fruttivendolo interrompe il silenzio sotto la pergola di via Beccaro, né un campanello risuona, come racconta lo stesso Gregotti, seduto sul portapacchi della bicicletta di un operaio, come ai tempi del cantiere, tra i portici di Piazza della Trivulziana. La Bicocca di Gregotti oggi è il monito di come una città non si compone di blocchi, come mobili giganti da riordinare nel nuovo appartamento, ma dell’invisibile e silenzioso pulviscolo che, in momenti distanti e luoghi diversi, la attraversa, la vive, e la emoziona.