Era il 1962 quando il movimento ecologico si riunì per la prima volta sotto le suggestioni di un titolo: Primavera Silenziosa, della biologa Rachel Carson. Occorre sempre ripetere date e nomi, giusto per ricordarsi da quanto certi argomenti siano di dominio pubblico, da quanto se ne parli e infine realizzare quanto poco si sia ascoltato. Realizzare che abbiamo delle falle, e che c’è chi la chiama indifferenza e chi bias, un inciampo cognitivo. Nel senso che è strano che il pensiero dell’estinzione, del disastro ecologico e il surriscaldamento climatico (non soltanto crisi ambientale, non soltanto riscaldamento, care giovani marmotte) passino solitamente attraverso orsi polari e panda. C’è un problema nelle suggestioni per il domani, nella capacità di imbastire scenari e di parlare di sistemi complessi.
Earth Day, in collaborazione con Zero, organizza con Triennale Ideas4Climate: due giorni di tavole rotonde e panel con Qatar Foundation e Future Food Institute per Youth4Climate.
Primavera Silenziosa fu efficace proprio per questo. Fu in grado di sollecitare un immaginario. Di produrre scenari, rendere visibile l’invisibile. Sarà perché era biologa, sarà perché era una persona con la sensibilità giusta, sarà perché si era nel mezzo di una fine del mondo che oggi è stile TEOTWAWKI, The End Of The World As We Know It – nuclear winter e Guerra Fredda, lì dove la bomba, come scrisse poi Gunther Anders, esplose nell’immaginario – ma sta il fatto che la Carson seppe raccontare i problemi di domani. Eventualità dell’estinzione, del disastro ecologico ultimo: non insetticidi, ma “biocidi”. Il problema dell’agricoltura, del cibo. Insomma, potevamo essere più avanti di quanto siamo. E invece passa il tempo, arrivano i movimenti, li si ascolta poco. La questione ecologica scivola sugli hippies, ma il viaggio psichedelico negli onirismi di un amore abbracciato ai pioppi non fu la giusta trovata – come i goani dell’altro ieri. Ci riescono forse un po’ meglio i preppers, i survivalisti, che pure oggi stanno tornando alla ribalta sempre nella verve dell’allarmismo, con tutte le buone ragioni del mondo e un’efficacia decisiva sull’immaginario comune. Chi vuole un bunker? Io, ma non me lo posso permettere, e forse è meglio così. Si sta un po’ meno tranquilli. Scavalcando in fretta i decenni, arriviamo a una pietra miliare: Rio ’92. La prima conferenza sul Clima. Se andate a leggervi i report di allora, se andaste a leggere i testi di Alexander Langer, apripista in tema di politicizzazione dell’ecologia in tempi decisamente non sospetti in Italia, capireste che quello che si è detto ad agosto con il sesto rapporto dell’IPCC (il primo risale al ’90) – il “codice rosso”, l’“abbiamo definitivamente sorpassato la soglia di non-ritorno” – ecco, vi rendereste conto che lo si sa da settant’anni e lo si dice schiettamente da quaranta.
Bene. Sperando che tutti sappiate ormai a menadito che cosa sia l’Overshoot Day e ricordandovi che quest’anno è cascato il 29 di luglio, e ora che avete recuperato una sana sfiducia nelle capacità di pensiero e organizzazione preventiva, di solidarietà tempestiva dell’umanità occidentalizzata (perché solidali dovremmo esserlo tra noi e noi ma pure tra noi e i noi di domani), eccoci arrivati alle giornate in Triennale per Pre-COP26: Earth Day, in collaborazione con Zero, organizza due giorni in Triennale di panel e tavole rotonde con Qatar Foundation e Future Food Institute per l’occasione di Youth4Climate. Tutto nell’ottica di educare al futuro.
In che senso “educazione al futuro”? Nel senso di fare il possibile per evitare che l’inerzia perseveri a infestare pressoché ogni gruppo, ogni azione. Evitare di rimanere vittime di quel bias cognitivo che è la paralisi (o l’euforia festosa degli ultimi istanti) davanti all’incedere del collasso. Collasso. Collasso. Quante volte vi siete ripetuti questa parola, scrollando le notizie del giorno? L’abbiamo detto cruenta, sì. Ma non ci sono altri modi.
Earthrise: vedere la nostra piccola palla sperduta nell’abisso dell’universo. Niente se non quella palletta blu. Casa è una; o quella o niente.
Possiamo vedere in quest’ottica il titolo della manifestazione: Ideas4Climate. A monte, ci serve poter tornare a immaginare. A ricercare soluzioni, a ricalibrare un po’ quel gusto macabro per la distopia che non riusciamo a scrollarci di dosso. D’altronde, lo stesso Giorno della Terra, arbitrariamente impostato il 22 aprile, celebra in sostanza una perdita. Quella degli ecosistemi, dell’inquinamento delle sostanze e delle distanze, di un uso sconsiderato dei materiali e delle risorse, insomma, di una certa cecità che in fondo caratterizza il rapporto dell’umanità (a dirla bene è quell’umanità che rappresenta qualcosa come il 10% della popolazione mondiale, ma che si insiste nel chiamarla “umanità”). E qui va ricordata una cosa: che la nascita del movimento ecologico globale, in Occidente e intorno agli anni Settanta, arriva sì con Primavera Silenziosa, ma anche con una foto (come sostiene Al Gore nel suo documentario An Inconvenient Truth): Earthrise, il celebre scatto dall’Apollo 8 che rende l’idea della piccolezza della nostra palletta blu, sperduta nel vuoto abissale dell’universo. C’è solo lei. E quella divenne per Earth Day anche bandiera, un simbolo realizzato negli stessi anni da John McConnel. Insomma, casa è una; o quella, o niente.
È così che nasce Earth Day: con l’obiettivo di dare voce agli attivisti, di far emergere i problemi a livello pubblico, mediatico, dopo il primo passo compiuto dalla Carson. Si trattava di un allineamento particolare, nel senso che al Earth Day del 1970 troviamo ONG, istituzioni, gruppi religiosi, giovani studenti, politici e senatori. È l’inizio dell’organizzazione dei movimenti ambientalisti, tutto accade in quegli anni. Ce ne vogliono altri 20 perché Earth Day goes global, ed eccoci alla Pre-COP26, giusto un paio di mesi dopo l’ultimo bollettino perentorio dell’ICPP. Si ha la sensazione che rimanga ancora quella strana abitudine maturata negli anni al terrore che ci aspetta. E Greta Thumberg, al MiCo ieri mattina, che grida al pubblico: «WHAT DO WE WANT? CLIMATE JUSTICE». Ha ragione, lo sappiamo tutti. E Ideas4Climate, qui a Milano, sembra voler spingere sulla connessione. Parlarsi da un capo all’altro del mondo, non tanto per risolvere (la soglia è superata) ma quanto per trovare degli strumenti atti a costruire una piattaforma di scambio, di condivisione del sapere
Ci serve che i worst-case scenario entrino nella quotidianità negli stessi termini in cui sappiamo di dover sbucciare un fico d’india prima di mangiarlo.
Nelle giornate tra il 28 e il 30, in Triennale ci saranno i panel di Qatar Foundation e del Future Food Institute. La QF è una grande organizzazione no-profit – ormai ventennale – che si occupa principalmente di educazione, ricerca e sviluppo di comunità in un’ottica da scenario, come ben si addice ai nostri tempi; alias: come fare ad agire con il futuro che ci si prospetta? Per questo QF porta studenti ed educatori. Per cercare di trovare il modo di risolvere i problemi globali a partire dal locale, il che significa poter tornare a conoscere le proprie contrade, facendo comunità. Studenti, educatori, professionisti, pure dibattiti in stile presidenziale, con moderatori e colpi di scena. Perché in fondo lo spettacolo ha la sua efficacia, come ha dimostrato pure la fotina di Earthrise. Al fianco, il Future Food Institute fa ciò che il suo nome gli impone. Negli scenari globali, il cibo – inteso tanto come consumo quanto, e soprattutto, come logistica e produzione, come consumo di terreno e risorse – è una problematica all’ordine del giorno. Riguarda lo spazio, la terra, la politica, la povertà, la sovrappopolazione, insomma: l’abitare. E come se non bastasse, il 29 cade inoltre la Giornata internazionale sulla Consapevolezza degli Sprechi e le Perdite Alimentari. Giusto perché, come abbiamo detto anche altrove, le giornate celebrative non bastano mai. E anche qui, prima o poi, arriverà il giorno che non avremo più giorni.
L’obiettivo, abbastanza esplicito per la pre-COP26, è quello di pensare un sistema di educazione e confronto, attraverso piattaforme, dialoghi, dibattiti. Ci servono strategie, piani d’azioni. Ci serve che i worst-case scenario entrino nella quotidianità negli stessi termini in cui sappiamo che un fico d’india si sbuccia prima di mangiarlo. Insomma, abbiamo bisogno di rinnovare quelle suggestioni. Dove troviamo, ancora, un’immagine di tale potenza? Forse gli studi di neurobiologia vegetale di Mancuso sono più efficaci dell’ipotesi di Gaia, per esempio. Forse c’è finalmente riconoscere che siamo paesaggio, o forse decidersi a prendere sul serio le lenti della narrativa sui paesaggi di domani.
E per chiudere, dobbiamo dirlo, è capitato di parlare tra amici e conoscenti. nominare la Pre-COP26, nominare la COP26, ma il risultato tabula rasa. Male. È necessario saper guardare in faccia non panda e orsi polari, ma i ghiacciai che si sciolgono, i tornado in Pianura Padana, e realizzare l’afflato survivalista della nostra era. Pensando che questa caldissima estate è soltanto la più fresca dei prossimi anni.