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L’adagio delle parrucche

L’apparato mimetico di un carnevale perenne tra vetrine fritti e fruste

quartiere Chinatown

Scritto da Federica Amoruso il 12 settembre 2021
Aggiornato il 28 settembre 2021

Foto di Agnese Morganti

Mi vergogno, sempre mi vergogno, fortissimamente mi vergogno. Vittorio (Alfieri) voleva, io mi vergogno. Fors’anche perché lui viveva nel Settecento ed era tempo di volere e pretendere, ma io nel 2021 mi vergogno. A volte penso che questa vergogna d’esistere è quella canottiera a coste larghe che indosso fin da piccola malvolentieri e che mi ripara dai colpi di freddo. Ciò che ci fa vergognare ci disegna nello spazio come esseri senzienti, delinea i limiti dei nostri desideri e permette all’altro di intravedere la barriera oltre cui è tutto intimo. La vergogna è uno strato superficiale, una di quelle pellicole plastificate sottili, delicate. Tuttavia questa vergogna detiene e conferisce un potere umanizzante e agglutinante che la rende uno dei pochi e rari sentimenti complessi e unici di questo genere pazzo e scianchellato (come direbbe mia nonna di Benevento) a cui apparteniamo. 

Foto di Agnese Morganti
Foto di Agnese Morganti

Appena arrivata in Sarpi, mi era parso di leggere un po’ vergogna nelle facce che incontravo. Non una vergogna italica, che immagino nera, densa, fiera e risentita come quelle che ho incontrato nel paesino di mia nonna. È una vergogna gentile, la vergogna di essere consapevoli di essere parte di un uno e che da soli non si fa nulla. Ma non si capiva proprio perché. In fondo non so manco di che si vergognano, ma che importa: potremmo farci un bel torneo di scambio delle figurine degli imbarazzi un giorno, tu ce l’hai questa? No grande ma io ho questa guarda qua, versione oro plus.

Parrucche, fruste, feticci, boa di piume, bustier, giacchette anatomiche. Tutto in strada.

Ero arrivata da sola, in una casa vuota, senza internet, con una tv a tubo catodico, senza un cazzo. Non mi ero manco portata gli asciugamani, ogni cinque minuti uscivo di casa con la scusa di andare da qualche parte, sperando mi piombasse addosso qualcosa di nuovo dal cielo, di bello. Che poi è andata esattamente così. Ora, a distanza di anni, quando rifaccio la mia personale rilettura delle strade che abito, mi accorgo che quel luccichio di ritrosia che guizzava negli occhi delle persone e che si prendeva per vergogna, era più che altro una specie di accettazione di tutto e tutti: piana, liscia come l’olio, libera dai baratri di pudore ereditati dall’educazione cattolica

Foto di Agnese Morganti

Così, in una passeggiata allucinata di stanchezza ho catalogato tutte le vetrine di parrucche, fruste, feticci, boa di piume, bustier, giacchette anatomiche incontrate sul mio percorso. Il loro affacciarsi innocuo sulla via di casa mi ha rincuorata. Si vede l’accettazione serena delle cose così come stanno, l’esproprio della realtà urbana, una declinazione matta del reale a buon mercato, un carnevale di pelle sintetica che di sensuale ha poco, nulla. Vuoi comprarti questa frusta sette code? E compratela, ma non solo compratela, te la sbatto qua sulla vetrina che affaccia dritta in Piazzale Baiamonti, ma che problema c’è. 

In questo scenario mediale fitto di oscenità raffinate come il bicarbonato Solvay, l’ingenuità di questi travestimenti mi consola.

Vorrei che tutti i quartieri della mia città fossero così, fossero quartieri di cui non comprendo del tutto la lingua, dove le agenzie immobiliari con gli impiegati impinguinati sono severamente vietati, dove i segni grafici si impastano e tutto è scritto un po’ sbagliato, dove al posto delle pubblicità sono affisse foto di bambini incazzati, anziani coi baffi (foto che ancora potete trovare affissa a una certa altezza di Paolo Sarpi, Dio solo sa cosa sia). Le gambe di donna finte che sfarfallano dalla vetrina di Alan Socks mi sussurrano come sirene che in qualche modo c’è spazio per l’errore, quelle cosce mozzate di plastica che finiscono nel nulla che non sarei nemmeno capace di immaginare sono la prova che il mio sistema di riferimento non vale nulla e che non va oltre la superficie di me stessa. Sono detentrice fiera di un’unica, personalissima patente di vergogna che solo io possiedo.

Io sono una new-bigotta, lo sono nell’anima, lo sono nel profondo, e queste radici bigotte probabilmente affondano in me ancor prima del mio corpo, sono bestie antiche che ho ereditato. Ma sono anche una punkabbestia romantica, e il mio bigottismo inquina o\e forse mitiga un certo ardore. Ma qui no, non mi vergogno o perlomeno non mi vergogno male. In questo carnevale perenne tutto vale veramente, e in questo scenario mediale contemporaneo fitto di oscenità raffinate come il bicarbonato Solvay, traumatizzante e maciullante, l’ingenuità di questo feticismo mi consola.

Tutto qui è festa, è una festa oleosa che lascia una scia, come quella sui pavimenti lordi dei KTV alle tre di mattina.

Di curativo – che mi curi il bigottismo – in queste strade c’è l’occasione di meditare a occhi aperti respirando questi effluvi di fritto. La misura del mondo è la misura del corpo che ci contiene. E in queste strade perfettamente ingegnerizzate per la deambulazione del bipede modello basic, qualsiasi delusione, dolore, tristezza, da lieve a medio-grave, può essere smaltita camminando andirivieni sui ciottoli lisci, fissando le insegne aliene e le persone a cui di te, sinceramente e benevolmente, non può fregar di meno. Quella banale libertà di piangersi (e scatarrarsi) addosso in pubblico senza dover dare spiegazioni. 

Foto di Agnese Morganti
Foto di Agnese Morganti

L’apparato scenico di quartiere che si spande alla vista è fatto di colori e forme imprestati da narrazioni di stampo misto, una mille e una notte al neon: dalle parrucche ai travestimenti più complessi. Tutto qui è festa, è una festa oleosa che lascia una scia, come quella sui pavimenti lordi dei KTV alle tre di mattina. Ovviamente anche questo surplus di festa mi imbarazza, e come tutto ciò che mi imbarazza, entra nel novero delle cose amate. Perché quest’apparato carnevalesco non potrebbe stare in piedi se non grazie alla festa, la mia amata festa – io sono fatta di festa. E qui, nella Chinatown milanese, ci troviamo nell’ultimo avamposto della città in cui la festa è festa e rispetta le distanze di sicurezza dalla realtà: quando uscirà un trattato sulla mimesi che i contesti indie\diy meneghini operano verso mondi mediatici, ideologizzati e totalmente avulsi dai contesti quotidiani, non credo Chinatown sarà nella lista degli interessati. Qui le radici si smembrano, ramificano, ma solo rimanendo quel che sono diventano tutt’altro: dai ravioli negli attici nascosti.