Ad could not be loaded.

Luca Lo Pinto

Scritto da Arrigo Razzini il 20 giugno 2015
Aggiornato il 25 agosto 2015

Foto di Kristina Kulakova

ZERO – Partiamo dalle presentazioni: chi è Luca Lo Pinto e com’è nata la sua passione per l’arte?

L.L.P. – Difficile definire un momento preciso. Fino all’adolescenza ho avuto un rapporto conflittuale con l’arte, forse perché quando ero piccolo ho avuto un’educazione culturale molto intensa. Sono cresciuto visitando mostre, spettacoli di teatro, sfogliando libri di cinema. Ovviamente a dodici anni avrei preferito giocare a pallone piuttosto che vedere a teatro Harold Pinter. Oggi ne vado fiero. Tuttavia a 17 anni lessi I diari di Andy Warhol e rimasi affascinato dal mondo che raccontava. Forse la scintilla è partita da lì.

So che hai una collezione di libri d’arte e d’artista; hai voglia di raccontarci qualcosa in proposito?

È una passione iniziata ai tempi dell’università. Ho avuto il privilegio di lavorare per un anno alla Galleria Primo Piano, una galleria storica che, oltre allo spazio espositivo, aveva un bookshop con una selezione di libri fantastica. Passavo ore e ore a sfogliarli tutti e mi sono reso conto di come fosse un mezzo interessante con cui sperimentare. Quando la proprietaria, Maria Colao, è mancata, ha lasciato nel testamento il desiderio che ricevessi tutti i libri. Un regalo immenso e inaspettato. Non lo dimenticherò mai. Tutto è partito da qui e nel tempo ho continuato a comprare libri su libri.

Nel 2004 tu, Francesco de Figuereido, Valerio Mannucci e Lorenzo Micheli Gigotti avete fondato «NERO»; ci racconti come è nato?

È un’avventura nata sulle ali dell’entusiasmo e dalla voglia di condividere le nostre passioni, i nostri desideri. Ognuno di noi coltivava interessi diversi, ma che si abbracciavano in modo spontaneo. Eravamo amici prima di tutto. Quindi, soprattutto all’inizio, il lavoro era inscindibile dal vissuto. «NERO» non si è formato su un tavolo di ufficio, ma nelle mostre, nei club, nei festival. All’inizio la rivista era quasi un filtro per condividere le nostre ossessioni con il mondo esterno. Era una traduzione in tempo reale della nostra vita. Poi le cose sono cambiate e«NERO» è diventato qualcosa di ben più di una rivista. Oggi ci piace vederci come un’agenzia culturale, che si muove fra formati, piattaforme e linguaggi diversi.

La tua città è Roma, che non è esattamente percepita come il capoluogo della contemporaneità, anche se esistono diverse realtà produttive (tra cui appunto «NERO»); qual è il tuo punto di vista? C’è abbastanza spazio, c’è abbastanza attenzione per il contemporaneo?

Roma è una donna bellissima, sa di esserlo e vorrebbe vivere di rendita. Ma dopo una certa età, la bellezza non basta. Mi spiace vedere tante potenzialità inespresse. È un discorso ampio, che coinvolge anche il campo culturale e in maniera più specifica quello all’arte contemporanea. Purtroppo nel passato recente a livello istituzionale sono stati commessi errori gravi di cui è e sarà difficile liberarsi. Per fortuna, a controbilanciare il tutto, esiste una rinnovata vivacità da parte di realtà e iniziative più indipendenti (artisti, curatori, riviste).

Da quasi un anno sei stato nominato curatore della Kunsthalle di Vienna e stai lavorando lì; come sta andando? So che hai da poco inaugurato la personale di Pierre Bismuth.

Molto bene. La Kunsthalle Wien è un’istituzione con una giusta scala. Si riescono a portare avanti una ricerca e un pensiero senza rimanere ingolfati in quei meccanismi burocratici tipici dei grandi musei. La mostra di Pierre Bismuth è la prima che ho curato; copre venticinque anni di attività dell’artista francese e cerca di mettere in discussione il format stesso della modalità espositiva. Adesso sto lavorando a due mostre collettive, che apriranno prima dell’estate: la prima è sull’influenza del architetto visionario Friedrich Kiesler sugli artisti contemporanei, la seconda è focalizzata sull’idea di collezione come ritratto e metodologia.

Torni spesso a Roma? Quali sono i luoghi dedicati all’arte che frequenti nella Capitale?

Tutte le chiese che incontro quando passeggio. La Casa Museo di Giorgio de Chirico, il Museo Mario Praz. La collezione della GNAM. Il giardino di Villa Medici.

Un posto dove porti/portavi a cena gli artisti con cui lavori?

Settimio, in via del Pellegrino. Enzo al 29 a Trastevere. D’estate da Ascanio a Maccarese.

E a bere qualcosa?

Da Ivano dietro il Bar della Pace, oppure al Bar Perù dietro piazza Farnese. Altrimenti sulle scale di una chiesa.


Patrick Tuttofuoco, Giovi, 2015; Max Lamb, Dolly Bowls, 2015. Veduta della mostra Le regole del gioco, Studio Museo Achille Castiglioni, 2015. Photo courtesy: Giovanna Silva

L’ultima mostra che hai curato è quella allestita a Milano nello Studio Museo Achille Castiglioni. Ci hai lavorato con Edoardo Bonaspetti (direttore artistico della Triennale di Milano) e non è stata la prima volta in cui hai curato un’esposizione in un luogo così connotato; in quell’occasione hai invitato 18 artisti a lavorare sullo studio dell’architetto, com’è andata?

È stata un’esperienza bellissima, una di quelle che mi rende felice di fare ciò che faccio. C’è stato un coinvolgimento totale da parte degli artisti e di tutta la famiglia Castiglioni, che ha reso la mostra unica. Come nel caso degli altri progetti che ho curato in luoghi simili, l’obbiettivo era di concepire una scrittura espositiva capace di produrre una narrativa che si sviluppasse attraverso i vari interventi e potesse suggerire prospettive diverse da cui osservare lo spazio.


Céline Condorelli, Among people-among things-among thoughts-in the present, 2015. Veduta della mostra Le regole del gioco, Studio Museo Achille Castiglioni, 2015. Photo courtesy: Giovanna Silva

C’erano anche alcuni pezzi non stati realizzati ad hoc (penso al lavoro di Thea Djordjadze o di Richard Artschwager, mancato nel 2013), ma che hai voluto in mostra; si può dire tu abbia lavorato su un binario doppio?

Le uniche opere non realizzate ad hoc erano quelle di Charlotte Posenenske, Richard Artschwager (entrambi scomparsi) e Thea Djordjadze. Nonostante questo, sono convinto che inserite in un contesto stratificato come lo Studio di Castiglioni abbiano assunto una valenza inedita. Come dicevo, per me curare una mostra è associabile alla scrittura, dove al posto delle parole esistono le opere. Alcune volte è bello utilizzare parole preesistenti, altre volte inventarle. Non esistono regole.


Charlotte Posenenske, Series B Relief, 1967– 2011; Stefano Arienti, Libro argento, 2015; Mandla Reuter, Untitled, 2014; Amalia Pica, Unintentional Monument (potato antenna), 2011-2015. Veduta della mostra Le regole del gioco, Studio Museo Achille Castiglioni, 2015. Photo courtesy: Giovanna Silva