Gli ultimi due anni pandemici sono stati caratterizzati da dinamiche e movimenti agli antipodi: se da un lato la diffusione e la cura vaccinale del Covid hanno rimarcato una certa irreversibilità dei processi di globalizzazione, dall’altro il tempo di resilienza trascorso tra questi due momenti ha riportato tutti con forza a una dimensione iperlocale: quella dell’appartamento, delle strade attorno alla propria casa, dei quartieri, fino a riscoprire la città come una somma di unità e reti. Proprio su questo terreno ZERO ha incontrato nelle ultime settimane il lavoro di Scenario, realtà a cavallo tra Roma e Berlino che indaga il ruolo dell’immagine fotografica nella cultura e nella divulgazione architettonica e urbana, ampliandone la consapevolezza. Da questo incontro è nato Luci su Roma, un progetto editoriale che nei prossimi mesi vi porterà in giro per la città attraverso il racconto e le foto di alcuni dei protagonisti della progettazione, della creatività e dell’artigianato di Roma. Il nuovo appuntamento è con Open City Roma, associazione composta da architetti, dottori di ricerca, comunicatori ed esperti di nuove tecnologie che da anni cura diversi progetti volti a creare nuove e più profonde connessioni tra pubblico, città e architettura, di cui Open House Roma è il principale. Laura Calderoni e Davide Paterna ci hanno raccontato del loro Rione Celio.
“Le sedi di OCR sono sempre state “estreme”. Per i primi cinque anni siamo stati al Tecnopolo Tiburtino, oltre il GRA, tra Case Rosse e Settecamini dove Roma cerca di farsi città. Ospitati in un grande open space di un nuovo edificio condiviso con altre realtà creative: molto spazio, strade larghe, poche persone. Da cinque anni siamo al Rione Celio, accanto al Colosseo, che inquadriamo con lo sguardo camminando tra il Monastero dei Santi Quattro Coronati e la Chiesa di San Clemente. Poco spazio, strade strette, mura antiche, molte persone. Questo è il cuore di Roma, ma è un cuore che, per molti romani, non batte più. Per paradosso questa è una parte della città inaccessibile a molti cittadini, una periferia urbana lasciata ai turisti, relegata nel mito di grandezza della Roma antica, consumata nelle immagini instagrammabili dei Fori al tramonto.
Il rione Celio però mantiene ancora, faticosamente, un suo tessuto residenziale, fatto di coppie con prole, artisti bohémien, anziani e cani (tanti) che si aggirano tra i trolley trascinati da turisti alla ricerca dell’ennesimo affittacamere dall’evocativo nome “Colosseum”. Un rione dove possiamo trovare l’unico mercato al mondo “monobanco” dove la famiglia Farina mantiene la posizione dal 1948, l’unico bar che non ha i menù turistici, l’unica edicola che non vende souvenir, l’unica gelateria che ancora offre coni due gusti a due euro. Ma appena si varcano le Forche Caudine di Via dei Fori Imperiali la città scompare. Scompare sotto la soletta di cemento e asfalto realizzata nel 1932 da Mussolini: un’autostrada urbana che rende lo spazio astratto e inverosimile, lasciando i monumenti come stanche fiere nelle loro gabbie. Da una parte i Fori Imperiali di Traiano, Augusto e Nerva, sprofondati all’interno di vasche ribassate e visibili da posticce balaustre, dall’altra i maggiori monumenti visibili dal “retro”, come la curia Iulia o la basilica di Massenzio.
Pare incredibile, eppure è in questo luogo che si gioca la partita della Roma contemporanea. Senza andare troppo lontano (partendo dalla lungimiranza degli urbanisti di fine Ottocento o dalla visione di Città Capitale di Ernesto Nathan che qui riuscì ad espropriare 40 ettari strappandoli alla speculazione edilizia) quest’area rappresenta un banco di prova per la Roma che verrà. Antonio Cederna e Italo Insolera, del quale quest’anno ricorrono i dieci anni dalla morte, immaginavano di eliminare gradualmente la Via dell’Impero per costruire il grande Parco Archeologico e riunificare così i Fori e collegarli al Celio, al Circo Massimo, alle Terme di Caracalla, al Parco dell’Appia Antica, fino ai Castelli Romani. Dopo quella stagione energica e per certi versi rivoluzionaria, ci si è mossi per piccoli passi. Interventi mirati (alcuni di particolare interesse come il progetto di Labics/Nemesi per Campo Carleo) che però non hanno avuto la forza di tirare fuori dal cassetto il grande “Progetto Fori”.
Quello che percepiamo noi oggi attraversando via dei Fori Imperiali è una mistificazione, una visione edulcorata e semplificatoria della complessità della città antica da cui dovremmo continuare ad apprendere la capacità di costruire connessioni, percorsi e tessuti, da cui dovremmo recuperare la capacità di essere organica, accogliente e ambiziosa. In quest’area di Roma, in cui le trivelle stanno lavorando per portare, con la nuova fermata della Metro C, altre migliaia di persone al giorno, cosa che renderà ancora più inutile la strada d’asfalto, dobbiamo immaginare la città contemporanea, nel suo insieme. Recuperare anche quanto sviluppato nei decenni passati, ripensare l’area archeologica centrale non più come un ambito musealizzato, estraneo alla vita contemporanea, ma sua parte essenziale, in connessione con i rioni limitrofi e le vaste aree verdi. E in questo senso siamo molto contenti che sia stato affidato a Walter Tocci il compito di riprendere in mano il Progetto Fori nell’auspicio di raccontare, tra qualche anno, una nuova storia del Rione Celio e dell’area archeologica.