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Ma il delivery funziona?

Come è andata in questi mesi e come può andare nel futuro: l'abbiamo chiesto ad alcuni imprenditori

Scritto da Martina Di Iorio il 14 maggio 2020

 

Sul futuro della ristorazione c’è molta incertezza. Sono stati mesi, e lo sono ancora, di dibattiti, ipotesi, polemiche, sullo sfondo di una profondissima crisi per un settore che ha già perso 12 miliardi di euro e a fine 2020 la perdita complessiva potrebbe essere di 28 miliardi di euro (fonte FIPE). La nuova dalle parti di Palazzo Chigi parla di apertura con data 18 maggio, per bar e ristoranti i quali potranno, con molte restrizioni, riaprire con somministrazione al pubblico. Anche qui in questi giorni circolano voci, bozze incomplete, supposizioni, alla luce di un decreto che deve essere ancora pubblicato ma fa trasparire alcune delle nuove misure che potrebbero essere applicate. Dal fantasioso e impraticabile distanziamento di 4 metri tra tavoli (misura per tutti gli imprenditori impossibile da mettere in pratica, visto anche le dimensioni della maggior parte dei locali italiani) al ridimensionamento della capienza: “con una persona ogni 4 metri quadri, venisse confermato, i ristoranti italiani perderebbero in un sol colpo 4 milioni di posti a sedere, ovvero il 60% del totale“. Dice con una nota la Federazione italiana pubblici esercenti, attiva più che mai in questi mesi, come portavoce di un settore tra i più colpiti dalla crisi sanitaria. Non appare perciò inverosimile la possibilità per molte attività, sempre più concreta anche alla luce di aiuti e sgravi fiscali che tardano ad arrivare, di non riaprire per niente.

Il delivery, e ora anche il take away ma non senza polemiche (leggi qui), è stata la strada percorsa per i primi mesi di crisi, un nuovo modello – per molti – considerato e inglobato nel proprio modello di business per potere stare a galla con le saracinesche chiuse. E così abbiamo assistito, giorno dopo giorno, al proliferare di ristoranti e bar con piatti da farsi recapitare al proprio indirizzo, anche se si stima che solo il 14,5 % è ricorso a tale modalità. Per tante ragioni. Rapporto costo ricavi, dipendenti, messa in sicurezza, materie prime, packaging, consegna, per dirne alcune. Abbiamo ascoltato alcune voci, per farci un’idea di come sia andata in questi mesi e di come sia possibile puntare in questa direzione per il futuro.

Maria Pranzo è consulente per la ristorazione e fondatrice del portale Nomayo prima guida ai ristoranti asiatici italiani. Ha lavorato molti anni ad Hong Kong dove ha perfezionato la sua conoscenza del settore, e in questi mesi di emergenza si è attivata nel fare rete con molti ristoratori asiatici di Milano.
“Una cosa di cui mi sono resa conto è che c’è molta voglia tra gli imprenditori asiatici di condividere strategie di mercato, punti di vista, idee. Fare “comparto” è uno degli aspetti che subito è emerso negli appuntamenti che abbiamo creato online, mettendo in luce come il confronto possa essere d’aiuto in questo momento difficile”.
Il delivery, secondo Maria e molti degli imprenditori della sua rete, può essere sostenibile dal punto di vista economico e in alcuni casi addirittura più vantaggioso (grazie al taglio di alcune spese), se fatto in maniera coerente, organizzata e intelligente. “Uno dei costi che grava sul sistema di delivery è sicuramente la commissione e il costo di attivazione che vengono date alle società che operano in questo settore, come Deliveroo o Glovo per esempio. Diventa veramente sostenibile se la consegna viene fatta dal ristorante stesso (come accade per Bon Wei, Dim Sum ed altri), si limita il raggio d’azione, oppure – cosa che è emersa nei nostri incontri – se si pensa a un sistema condiviso di drivers. La volontà comune è quella di non snaturare mai l’anima del locale, non stravolgere il menu ma adattarlo per un delivery che mantenga la qualità e lo standard”.

Andare al ristorante ha una componenete emotiva ed esperenziale non indifferente, che si va un po’ a perdere nell’asporto. Ma non in tutti i casi

Per questo, ci spiega, i ristoratori asiatici di Milano sono partiti nell’ottica di una semplificazione del menu che non comporti una perdita di qualità, ma anzi, lo valorizzi alla luce del nuovo servizio. Piatti non solo da riscaldare ma creare, packaging creativi e compostabili. Altro aspetto fondamentale da non sottovalutare è la perdita dell’esperienza, del contatto umano, che per ovvie ragioni il delivery riduce all’osso. Ma anche su questo punto i ristoratori asiatici – e non solo – hanno la loro soluzione.
“Posso dire che in generale il delivery è nel dna della cultura asiatica: il cibo si presta molta bene al trasporto, anche perché in Cina molte case non sono dotate di cucina, perciò le persone utilizzano il delivery con costanza quotidiana. Qui ovviamente andare al ristorante ha una componenete emotiva ed esperenziale non indifferente, che si va un po’ a perdere nell’asporto. Per questo un buon consiglio è quello di renderlo più interattivo e “caloroso”. Come Serica, ristorante in viale Bligny, che propone il meal kit, con le istruzioni per assemblare i vari ingredienti, cucinandoli a casa. Così non si perde il gusto (immaginate un ramen che arriva d’asporto rispetto a uno che cucinate voi con tutti gli ingredienti già pronti) e si mantiene vivo il contatto con il cliente. Oppure Gastronomia Yamamoto che non si era mai approcciata prima d’ora al delivery, e ora lo fa con un numero ristretto di piatti che arrivano a casa accompagnati da un foglio colorato con le istruzioni per fare un origami o una frase di saluto”.

Yike Weng, proprietario di Dim Sim, conferma ogni aspetto: “Siamo partiti avvantaggiati perché volevamo aprire una gastronomia d’asporto e delivery di lusso, quindi eravamo pronti con una piattaforma di e-commerce sul nostro sito. Ci siamo poi appoggiati ad una agenzia che ci forniva auto, perché non potevamo pensare di consegnare cene da 150/300 € in motorino o bicicletta, con il rischio che si rovesciasse tutto. Sono costi alti, anche perché noi abbiamo mantenuto la stessa linea di cucina del ristorante. L’unica concessione è l’aumento delle porzioni dove il food-cost lo consente”.
Yike ci conferma che per lui è conveniente questa modalità, perché rimette in moto la cucina e i ragazzi, e fa rivivere la memoria della sua insegna. Per uno scontrino medio di 100 euro i fattori vincenti sono: avere una piattaforma di e-commerce propria; comunicazione (sito e social e stampa); contatto diretto e personale con i propri clienti, con servizi custom-made.

Chi parte da zero, chi si sta strutturando, chi cerca di studiare nuove soluzioni ed esperienze per il cliente. Il mondo dei ristoranti asiatici risponde bene e con buoni risultati in termini d’incassi per questa fase. Una buona regola sembra quella di non perdere mai il rapporto con i clienti e alimentarlo con newsletter, consigli, facendo cultura sul prodotto e non solo. Il rapporto di fidelizzazione è il punto nevralgico per la sopravvivenza di questo comparto. Dello stesse parere Alessandro Loghin, proprietario di Chihuahua Tacos, che sta sfruttando questo momento per perfezionare il servizio ed implementare la sua rete di clienti.

Fidelizzare il cliente, crearsi un proprio asset, rimodulare l’offerta e sofisticare il progetto grazie alla digitalizzazione di questo lavoro, è sicuramente la chiave per il successo in futuro

“Prima il delivery rappresentava il 10% del nostro fatturato. Ora siamo partiti con l’idea di rafforzare questa modalità di servizio: abbiamo studiato un packagin sostenibile e resistente all’asporto, abbiamo rimodulato il team, abbiamo rivisto il menù alla luce del fatto che le feste in casa saranno sempre più frequenti e per questo da noi si possono acquistare kit per più persone, come la Comida de fiesta. Quando si potrà aprire, metterò il locale in sicurezza con il distanziamento de tavoli, ma continueremo a puntare molto su delivery e take away, con una proposta to go per i picnic all’aperto”.
Alessandro comunica tramite i social, con campagne ad hoc per fidelizzare la propria fanbase e trovare nuovi clienti, e anche se ci racconta che in questo momento sta coprendo i costi, è fiducioso della strada intrapresa. “Fidelizzare il cliente, crearsi un proprio asset, rimodulare l’offerta e sofisticare il progetto grazie alla digitalizzazione di questo lavoro, è sicuramente la chiave per il successo in futuro”.

Luca Marcellin, proprietario del cocktail bar Drinc. e tra i promotori del movimento SOS bar & ristoranti, ci spiega come sta andando. “Il nostro sistema di delivery e ora anche di take away funziona via Whatsapp, dove raccogliamo gli ordini, anche per evitare assembramenti all’esterno e per garantire il massimo del servizio. Il cocktail perciò ti viene dato a temperatura, con diluizione perfetta, che per noi è molto importante. Le normative di igiene e sicurezza le abbiamo semopre rispettate: spray per superfici, integrando con igienizzanti ospedalieri a base alcol, lavoriamo con guanti e maschere, facciamo tutto al momento o poco prima della spedizione, rispettando la catena del freddo. Il ghiaccio viene dato in un sacchetto da freezer, che può sempre essere riutilizzato; il drink invece viene versato in un contenitore di vetro, chiuso, e trasportato così in sicurezza in uno zainetto con logo.

Luca ci spiega meglio anche i costi che sostiene, condividendo con altri imprenditori, l’idea di usare questo momento per stare vicino al cliente e sentirsi attivi: “Il costo per il packaging è sicuramente alto, visto che i cocktail vengono messi in vetro e abbiamo fatto fare questi zainetti loggati. Più che altro stiamo utilizzando questo periodo per rimanere vivi e non abbandonare il cliente. Infatti hanno risposto bene, mandandoci video e ringraziandoci per il servizio che abbiamo fatto, quasi portando l’esperienza del cocktai bar a casa della gente. Non facciamo però sicuramente margine in questo periodo, abbiamo addirittura abbassato i prezzi dei nostri prodotti alla luce anche del fatto che il personale è ridotto e non stiamo quindi sostenendo quella spesa che nel quadro generale incide sicuramente”.
Alla domanda se il delivery è veramente conveniente per un locale e possa essere un modello da perseguire in futuro, Luca è chiaro: “Per un cocktail bar e per un locale come il mio direi di no. Va bene per tamponare un po’ ma poi basta. Capiremo come riaprire e se verrà la pena farlo”.