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RitmoLento rivendica un nuovo spazio sociale e autogestito riconosciuto dal Comune

Scritto da Salvatore Papa il 30 giugno 2022

RitmoLento, il circolo Arci costretto durante la pandemia a chiudere i battenti del locale in affitto in in via San Carlo, ha presentato oggi un nuovo ampio progetto facendo appello al Comune di Bologna per l’assegnazione di un immobile pubblico.

Ideato attraverso un percorso di coprogettazione autonomo, fuori dalle logiche partecipative previste dall’Amministrazione, il progetto denominato “Puntiamo allo spazio” è rivolto soprattutto a lavoratori autonomi e precari tra riders, tech workers, lavoratori e lavoratrici dei musei e dei beni culturali, educatori e ed educatrici sociali, impiegati e impiegate nella ristorazione e nei servizi turistici a basso valore aggiunto. Tra le attività proposte ci sono: la creazione di una scuola di mobilitazione sindacale, che faccia tesoro dell’esperienza dei riders a Bologna, ma anche uno sportello per il lavoro autonomo, di orientamento al lavoro e ai servizi fiscali; poi, ciclofficina sociale, coworking e dopolavoro gratuiti, aula studio, biblioteca sociale, mercato del libro usato, sostegno scolastico tra pari.

Il percorso di coprogettazione, al quale hanno partecipato anche da realtà come Tech Workers Coalition, RidersXiDiritti, ADI Bologna, Acta Bologna, Sessfem, MalaEducacion, Link Bologna e Unione degli Studenti, ha focalizzato l’attenzione – scrivono – “sulle crisi che il nostro tempo ci chiama ad affrontare (ambientale, energetica, del modello di produzione fordista, del lavoro, delle relazioni industriali, sociale, dei rapporti di cura e delle infrastrutture del mutualismo). Le organizzazioni, i collettivi, le associazioni e le realtà informali coinvolte non sono animate dalla mera ricerca di una sede, quanto piuttosto dalla costruzione di un progetto comune in uno spazio di comunità orientato al territorio”.

La fase di coprogettazione all’Atelier Sì

Ecco alcune domande che gli abbiamo posto:

• La vostra coprogettazione bypassa quella del Comune. Perché? E cosa ne pensate dei vari strumenti utilizzati, tipo Laboratori di Quartiere, e delle forme di partecipazione messe in campo dall’Amministrazione?

Nel pensare la nostra coprogettazione siamo partiti da un assunto: la pandemia ha amplificato e dato nuova forma ai tanti problemi sociali e alle crisi strutturali che attraversano la nostra società.
Le forze sociali, tanto quelle strutturate quanto quelli informali, hanno un urgente bisogno di ripensare le forme della propria attivazione sui territori a partire da questa trasformazione.
Da questo punto di vista abbiamo pensato che fosse necessario interrogare direttamente tutte loro rispetto a questo contesto per cercare di definire una prospettiva e una strategia innovativa. Dal canto nostro, abbiamo attraversato i Laboratori di Quartiere e le varie forme di partecipazione avviate dal Comune, ma crediamo che la questione centrale sia la strategia autonoma di cui si dotano le forze sociali, nell’ottica di poter produrre avanzamenti politici su temi generali. Senza questa discussione, senza proposte autonome, concrete e ricompositive, i processi di partecipazione rischiano di perdere il loro senso. E il nostro tentativo è proprio quello di provare a ricostruire un senso attorno al tema della partecipazione politica nel post-pandemia, in piena crisi climatica.

• Quello che chiedete, in sostanza, è uno spazio. Perché il Comune dovrebbe darvi ascolto? Non c’è il rischio di passare per privilegiati? D’altra parte la risposta è più o meno sempre la stessa: “partecipate ai bandi”.

Chiediamo uno spazio, ma non perché siamo noi a chiederlo. Siamo consci che il problema della mancanza di spazi che producano alternative alla logica di profitto vada ben oltre il RitmoLento.
Il nostro percorso di coprogettazione e la grande partecipazione di realtà estremamente eterogenee, ci dice che non siamo i soli ad avvertire il problema. Per questo non puntiamo su un’identità statica, su un servizio che manca in città, sul solo riconoscimento di ciò che abbiamo prodotto in passato, ma su una proposta politica e su un metodo. Abbiamo sintetizzato questa proposta in 15 pagine di progetto, che dalla Scuola di Mobilitazione Sindacale al Laboratorio permanente sulla safeness, dall’Osservatorio di raccolta dati sui bisogni sociali al Dopolavoro per lavoratori e lavoratrici delle piattaforme digitali, individua nel community organizing la filosofia organizzativa in grado di ridare centralità alle persone e ai loro bisogni.
Chiaramente si tratta di una sfida da lanciare non solo al Governo municipale, ma alla città tutta, e crediamo sia la sfida giusta da porre in un quadro politico diverso da quello in cui è nata la nostra esperienza.

• Avete mai pensato di occupare? E cosa ne pensate di chi lo fa rivendicando modalità diverse (e non standardizzate) di assegnazione degli spazi?

In questo anno e mezzo senza poter contare su uno spazio la priorità è sempre stata quella di pensare al senso per il quale oggi vi è bisogno di uno spazio sociale. La sfida che poniamo è sul riconoscimento di una proposta politica e di un metodo che vadano anche oltre un semplice spazio. Per questo la richiesta che rivolgiamo al Comune e agli attori pubblici si concentra su questo. Riconosciamo come ricchezza di questa città le modalità di riappropriazione degli spazi che sfidano le maglie troppo strette del diritto. Gli sgomberi di queste settimane rappresentano una ferita aperta che non si era ancora rimarginata dopo quelli degli anni passati. Ma oggi siamo a chiederci se nella città che punta ad essere la più progressista d’Europa ci possa essere spazio per il riconoscimento di culture politiche differenti e di un metodo radicale. Noi pensiamo di sì e siamo pronti ad essere smentiti dai fatti.

• La questione della tutela dei diritti sul lavoro è al centro delle vostre attività e dei vostri futuri servizi: il Comune non fa abbastanza?

Secondo il sistema economico e sociale che viviamo un Comune non può fare molto. Non dimentichiamo che negli ultimi vent’anni, in particolar modo dagli anni dell’austerity, le amministrazioni comunali sono state ridotte a mere aranti dell’ordine pubblico – non senza una certa connivenza di tutti i principali partiti politici -, in cui gli unici strumenti di governo sono le ordinanze, non a caso sempre più numerose. Nel frattempo lo sviluppo produttivo dei territori veniva slegato da qualsiasi tipo di regolazione, peggiorando di molto le condizioni di lavoratori e lavoratrici, senza che chi governasse quei territori avesse a disposizione strumenti di regolazione. Ma le vertenze sindacali bolognesi e le mobilitazioni di lavoratori e lavoratrici della gig economy sono le condizioni grazie alle quali è stato possibile, anche sulla base della nostra esperienza di supporto alle battaglie dei riders e delle riders, tornare a credere che un Comune possa fare molto di più. La Carta dei diritti dei lavoratori digitali nel contesto urbano è lì a dimostrarlo, ma non può bastare. Se sui temi del lavoro il Governo cittadino vuole tentare una fuoriuscita dall’irrilevanza a cui viene relegato dalle trasformazioni politiche inscritte nel nostro ordinamento, crediamo che la soluzione sia quella di mettersi a disposizione di esperienze che si pongono l’obiettivo di dare centralità a chi lavora, ai loro bisogni e alle loro istanze. La Scuola di Mobilitazione Sindacale nasce esattamente per questo.

• Perché oggi c’è bisogno di un Circolo come RitmoLento a Bologna?

In questi anni le esperienze di organizzazione dal basso nate all’interne del RitmoLento hanno contribuito a determinare le scelte di governo della città su alcuni temi nevralgici come quelli del lavoro e del diritto all’abitare.
Quei processi però non sono esauriti. La pandemia li ha accelerati così come ha accelerato le profonde trasformazioni che il neo-liberismo ha imposto alle città.
Oggi tutte le realtà sociali scontano una crisi di senso all’interno di questo quadro, lasciando il campo alla frammentazione sociale.
Crediamo che Bologna abbia bisogno di spazi e che abbia bisogno di un nuovo RitmoLento in virtù della proposta di metodo che stiamo ponendo.
Un metodo che punta a cogliere e interconnettere vecchi e nuovi bisogni, vecchie e nuove soggettività frammentate. Volto a ricomporre la società intorno a temi generali e non corporativi.
Uno spazio dove organizzarsi, dove costruire alleanze, dove interrogarsi sulle complessità che scuotono il mondo, riconsegnare potere alle persone e sconfiggere il senso di impotenza che le asfissia.