A due passi da Rimini, a San Mauro Pascoli, in un edificio orizzontale che accosta volumi di cemento a blocchi trasparenti – la fabbrica di Sergio Rossi progettata da Ermanno Previdi – è nata una nuova collezione d’arte. Grazie all’energia inesauribile e alla volontà di ferro di due persone che si sono incontrate poco più di un anno fa: Riccardo Sciutto, l’amministratore delegato di Sergio Rossi, e Rossella Farinotti, curatrice milanese. I primi tre artisti coinvolti in questa operazione sono Vedovamazzei (Stella Scala e Simeone Crispino), Ettore Favini e Davide Allieri, tutti chiamati a produrre opere site-specific che interagissero con il nuovo spirito che sta plasmando l’azienda e con le persone che ci lavorano.
«Le scarpe di Sergio Rossi sono pure opere d’arte frutto dell’inconfondibile talento italiano, ed è per questo che abbiamo voluto associare a questo luogo opere di artisti italiani» dice Riccardo Sciutto, artefice di una grande rivoluzione culturale da quando è entrato nell’azienda due anni e mezzo fa. Il marchio era appena tornato 100% in mani italiane, passando dal gruppo Kering a Investindustrial, e sotto la sua guida investe un’inverosimile quantità di energie nel recupero del patrimonio estetico prodotto in sessant’anni di storia, che era stato rimosso durante gli anni di Tom Ford. Sciutto ha messo in piedi un team per recuperare i vecchi materiali e i documenti e costruire un archivio-gioiello consultabile dagli stilisti come forma di ispirazione e dagli ospiti. Ha interrogato i dipendenti storici, ha valorizzato il loro lavoro e l’edifico stesso della fabbrica, e infine l’ha arricchito con lo sguardo e l’azione degli artisti, a cui presto ne seguiranno altri.
La “firma” a cui allude il titolo dell’opera di Vedovamazzei è un grande neon soffiato a mano, di un rosso caldo (“rosso Merz”), che rappresenta un numero di telefono: è il numero aziendale dello stesso Sciutto, scritto a mano da lui e tradotto in un segnale luminoso visibile anche dall’esterno, entrando nei recinti della Sergio Rossi. La calligrafia, riprodotta con una sapienza artigianale incredibile da un neonista milanese, è un segno talmente personale da corrispondere a un vero e proprio ritratto della persona che ha elaborato la scritta. E il numero di telefono è un’informazione anch’essa legata alla persona, in questo caso a una persona come metonimia dell’azienda a cui aderisce con tutto il suo essere.
Ma se da un lato dell’edificio viene esibito orgogliosamente questa opera-numero, come segno di apertura all’esterno, sull’altro lato che affaccia sull’autostrada è apparsa una grande installazione dorata, un cartello vuoto, un billboard che mostra soltanto la preziosa materia di cui è fatto (ottone) bandendo ogni altra immagine. Un rettangolo di metallo caldo che fa da contrasto al cemento brut dello sfondo, che il suo autore, Davide Allieri, ha chiamato Billdor, giocando con le parole per dare anche un suono dorato all’opera.
Il lavoro di Ettore Favini invece è una vela sospesa all’ingresso della struttura, e in una versione leggermente ridotta all’ingresso della manovia. Più precisamente si tratta di una Vela al terzo, un tipo di vela inventata e utilizzata dal XVI secolo proprio nell’area romagnola, ricoperta di segni araldici che identificavano le famiglie locali. Favini ha pensato di costruire con quest’opera una vera e propria araldica della Sergio Rossi, lavorando a strettissimo contatto con gli artigiani dell’azienda per disegnare la vela utilizzando i ritagli delle scarpe più iconiche create nelle sua storia. Nel grande collage, montato integralmente dagli operai, compaiono naturalmente il pezzo curvo delle décolleté classiche, del modello sr Milano, e anche le mitiche Marmaid, i cui pezzi formano una stella in punta alla vela.
Rossella Farinotti, che ha curato senza risparmiarsi i rapporti con gli artisti, la stesura del progetto, il work in progress e l’installazione delle opere, spiega che ha puntato sulla scelta di artisti di generazioni diverse – Vedovamazzei emersi scoppiettando sulla scena negli anni Novanta, Davide Allieri giovane emergente a tutti gli effetti, ed Ettore Favini in mezzo – per offrire un gioco di sguardi più complesso sulla relazione che lega reciprocamente l’arte concettuale e quella del manufatto, la risposta dell’arte a un luogo, a un territorio, a un edifico, a una comunità. E se il risultato di questo primo step della collezione ha potuto assumere una forma così pulita e strutturata è anche grazie alla conoscenza profonda che ha degli artisti, con cui ha lavorato più volte e a più riprese – come nel caso del grande neon di Vedovamazzei alla Cittadella degli Archivi di Milano, inaugurato meno di un anno fa.
Ma qui a San Mauro Pascoli è solo l’inizio. Presto arriveranno le opere di Vanessa Beecroft e di Serena Vestrucci, e poi sarà un turbine.