Giunto alla sua ottava edizione, Terraforma è un festival ben consapevole di quello che può offrire. Oggi, 2023, anno in cui la musica elettronica è un elemento che viene in larga parte dato per scontato – inserito, spesso a sproposito, in qualunque tipo di evento – è importante ricordarsi il ruolo che hanno avuto alcuni attori nella costruzione di una direzione artistica sonora articolata. Guardando indietro alle prime edizioni del festival nel 2014 e 2015, tante sono le cose cambiate in città. Sebbene Milano resti un luogo complicato per progettare un certo tipo di offerta culturale, non vi è dubbio che Threes – il progetto che fa capo a Terraforma e non solo – negli anni abbia contribuito a cambiare le cose, accompagnando, e in alcuni casi facendo da apripista, a molte tendenze curatoriali che oggi troviamo negli appuntamenti notturni milanesi.
[…] ci stiamo interrogando sul come far evolvere questo formato perché ne sentiamo la necessità.
Dal 9 all’11 giugno il festival è pronto a terraformare il Castellazzo, luogo dal sapore nobile ma mistico, con un’edizione che si presuppone di tornare alle origini, restituendo parte del carattere originario di un’esperienza che, a causa di un seguito sempre maggiore costruitosi negli anni, stava andando a perdersi:
“L’anno scorso è stato un po’ traumatico per diversi motivi; un ritorno a Villa Arconati dopo una serie di edizioni saltate per l’emergenza Covid che ha portato a una over-population del festival, causando dello stress su tutti i fronti, sia dal punto di vista ambientale, sia dal punto di vista umano” ci racconta Ruggero. “L’obiettivo è tornare a una dimensione più sostenibile, per noi e per il contesto di Villa Arconati, perché il sito non può reggere certe numeriche, e dall’altro lato riprendere un percorso di ricerca che l’anno scorso avevamo un attimo messo da parte”.
Un’edizione questa, infatti, che vede nel suo programma il ritorno delle attività diurne, lectures e workshop, restituendo al festival la sua dimensione di ricerca e di interconnessione tra musica e attività di diverso tipo. Dimensione di cui non si sentiva l’urgenza in un momento successivo ad un periodo in cui la centralità dello stare insieme, prerogativa di un festival musicale, è stata messa in discussione. “È un cercare di ritornare a una dimensione pre-Covid quindi anche in questi termini. Quest’anno si torna un po’ anche a esplorare quel percorso che in realtà si stava sempre più strutturando, ossia quello degli incontri e dei workshop”.
IL CONCEPT DI “ORGANIC MUSIC SOCIETY”
Organic Music Society è un progetto pensato negli anni ’70 dal leggendario jazzista statunitense Don Cherry e dall’artista interdisciplinare, sua compagna, Moki Cherry, che ha dato vita alla costruzione di uno spazio comunitario nella campagna svedese, in cui l’elemento musicale viene inserito all’interno di una più ampia cornice curatoriale. “Ho contattato la nipote di Don e Moki, Naima, e con lei ci siamo interrogati sul come far atterrare quest’esperienza che io sento estremamente vicina a delle tematiche di Terraforma”. Esperienza che non è stata traslata con uno spirito nostalgico, ma tradotta con un’attitudine fortemente contemporanea. “Ne siamo usciti con l’idea di ricostruire questa struttura geodetica, il Dome, costruita nel 1973 da Don e Moki all’interno del Moderna Museet di Stoccolma, dove sono stati invitati a traslare la loro community nell’arco estivo, vivendo all’interno di questa cupola e portando un programma di performance, installazioni e workshop. Quindi abbiamo pensato di ricreare questo spazio, con l’ausilio dell’architetto originale, Ben Carling, che sarà lo spazio che ospiterà la presentazione del libro, e tutta una serie di contenuti che volevano un po’ toccare delle tematiche di Organic Music, portandole in una dimensione contemporanea.”
Foto del Dome negli anni ’70 e del Bucky Dome ricostruito al Moderna Museet nel 2012
Il programma delle lectures, infatti, è caratterizzato da una serie di appuntamenti che dialogano e ampliano le tematiche di Organic Music Society, nell’idea di un continuo interscambio tra la musica e altre discipline e contesti, da un lato, e l’incontro e la sinergia tra culture diverse dall’altro. Sabato 10 giugno, ad esempio, il duo Invernomuto presenterà una listening session incentrata sul primo capitolo del loro progetto Black Med, una piattaforma online di ricerca che mira a intercettare le traiettorie sonore che attraversano l’area del mar Mediterraneo. Oppure domenica 11 Vitelli presenterà un workshop sul riutilizzo e la circolarità nella produzione di maglieria.
Ma non sono solo le lectures e i workshop a tradurre nell’attualità l’esperienza di Organic Music Society, ma anche la proposta musicale, che in alcuni punti viene toccata da questo approccio multiculturale e interdisciplinare. “Questa era un po’ l’idea di Don, di portare la musica al di fuori dei contesti tradizionali della musica, e anche quella di far incontrare diverse culture”. E quindi sempre domenica 11 presente Beatrice Dillon nella sua collaborazione con Kuljit Bhamra, musicista di Tabla che ha aperto la strada nel Regno Unito alla musica tradizionale pakistana e indiana del Bhangra, così come il dj-maestro del reggae originario delle Barbados Dennis Bovell. Un approccio, quindi, che attraversa anche l’organizzazione della line up, prendendo l’esperienza di Organic Music Society come spunto per portare all’interno di Terraforma live act dalle influenze diversificate.
Chiedendo a Ruggero sulla direzione che prenderà il festival nel tempo, la sua risposta è decisa: “Siamo alla nostra ottava edizione, che sono poche per certi versi però dall’altro lato credo che il festival abbia saputo dimostrare sin dall’inizio un’identità molto spiccata per cui in realtà non sono così poche, ci stiamo interrogando sul come far evolvere questo formato perché ne sentiamo la necessità”. Non un punto di arrivo quindi, ma di passaggio, per un festival in continua evoluzione che ogni anno sa costruire una forte ricerca, sonora e artistica ma non solo, restituendo dignità ed importanza alle culture e alle discipline coinvolte. Un’ambizione che non può che fare del bene ad una città vittima dei suoi stessi format, in cui i dj-set e la sperimentazione subiscono troppo spesso un’estrazione di energie forzata a favore di una standardizzazione costante delle proposte.