CICORIA
Mia nonna vive qui, nella villetta accanto a quella di mia madre, e insieme a lei ci vive mio fratello, che chiameremo Fratello 1. Vado da mia nonna intorno alle 10, a prendere il secondo caffè. Le dico che voglio andare a cogliere la cicoria, che deve accompagnarmi perché io non so com’è fatta la cicoria viva. Lei risponde che per pranzo ci sono carciofi, che la cicoria l’abbiamo mangiata domenica, e io le spiego che non è per mangiare, cioè sì, è per mangiare, ma è anche per saper cogliere un’erba selvatica. Le mie parole mi risucchiano da dentro, in un caleidoscopio di metafore. Lei dice che va bene, però non fa come farei io, chessò: prendere i coltelli e un recipiente, dire: andiamo. Lei lentissimamente finisce di fare colazione, scende le scale, sistema una fila di panni sul filo steso dal suo balconcino, fa altre tre o quattro cose, e io non so cosa faccio durante tutto questo, ma a un certo punto cammino nel tempo magico degli anziani e ci troviamo nel campo non coltivato, ognuna col suo coltello, una cesta blu di plastica, e cerchiamo cicoria. Lei mi dice no, chessa no e io proseguo la mia ricerca. Mi fa vedere come dev’essere fatta la pianta, come strapparla, come tagliarla dalla radice, spezzarla dov’è dura. La cosa mi piace, mi piacerebbe se ne trovassi. Dopo mezz’ora lei ha riempito la cesta, io non ne ho messe insieme neanche tre o quattro di piantine, e sono anche piccole. Dov’ero passata poco prima e non avevo visto niente mia nonna ha colto piante enormi che sembrano foglie di lattuga. Lei dice che sono negata, che prendo solo lampazzi, e non cicoria, come s’io sapessi cosa sono i lampazzi.
Quelli che trovo io, ecco cosa sono.
Poi mi arrendo, penso a quel bellissimo locale in centro che si chiama Retrobottega, in cui sono stata una volta d’estate, con mio marito, dove mangiammo una tale varietà di erbe spontanee di cui non ricordo neanche un nome, neanche un sapore. Avevo i miei pantaloni di lino celesti, bevevamo bollicine italiane. Anche quel posto è chiuso ora mentre cerco invano cicoria nel campo. Tutto è chiuso. Il mio mondo è chiuso. Non sopravviverò qui. La cesta blu è piena, mia nonna è soddisfatta, dice che ci si può fare, con quella quantità, una mezza magnata, dice che basta pe’ ‘na femmina prena. Io mi ricordo che potrei essere effettivamente incinta, che dovevo fare il test, che anzi devo farlo. Poi ci sediamo e iniziamo a pulire la cicoria. Pulire la cicoria è un procedimento lungo e minuzioso, lungo poiché minuzioso. Bisogna tagliare la radice ma non tutta, bisogna tenere la pianta unita, e spesso la pianta cresce intrecciata ad altre piante. Mia nonna mi spiega che devo prima dividere le piante, poi pulire la radice. Dividere e pulire: voglio imparare, voglio capire se questo ha a che fare con me, con questa situazione. Poi arriva Maria, la vicina di casa, che si sporge dal cancello. Mia nonna si alza, va verso di lei e io dico: “Ragazze, rispettate la distanza di sicurezza!”. E loro ridono, alla maniera delle belle vecchie.
DOMENICA
Domenica scorsa siamo andati al circolo. Abbiamo abbracciato gli amici che non vedevamo da giorni, mio marito ha giocato con Felice e i col bambino: la mia ora di tennis era stata venduta a qualcun altro. Il circolo è pieno di gente che entra ed esce, si fa la doccia e prende il caffè. Io porto il gonnellino e le scarpe, e l’aria è calda com’è calda l’aria alla fine dell’inverno. Poi arriviamo a casa di mia madre. Il giardino è un tappeto di fiori, e noi lo attraversiamo come gladiatori in gran trionfo calpestando petali caduti. Vado a cambiarmi, e trovo mia cugina col fidanzato in salotto che allunga la mano sul bambino per accarezzarlo. Un tondo brillante e lavorato le splende sulla mano magrissima. Guardo lei, poi lui, e sorridendo dico: E quello che cos’è? Loro si guardano imbarazzati, quindi mi affretto a dire Ok, tranquilli, lo direte poi con calma. Mia cugina non indossa mai gioielli, raramente collanine lunghe e sottili di H&M con piccoli pendenti, ma mai roba vera. Mai orecchini, mai bracciali, anelli meno che mai. A tavola si chiacchiera stretti chiusi nella piccola sala da pranzo di mia madre.
In quel momento non ci stiamo contagiando.
Ravioli, trippa al sugo. Il camino brilla. I miei suoceri ci raggiungono per il dolce, tutto il mondo è in bilico. Fare e non fare, incontrarsi e stare a distanza. Mia suocera dice che non vuole baciare il bambino perché è raffreddata; è quasi ora di rimetterci in macchina e tornare a Roma. Mangiamo la torta mimosa perché è la Festa della Donna, gli uomini escono in giardino. Mio marito mi chiama da fuori: C’è una notizia, venite! Stefania e Michele si sposano. Non si sa quando; questo settembre, forse il prossimo. Bisogna capire, trovare un bel posto a Sabaudia. Se sarà questo settembre festeggeremo la fine di questo virus. Domenica non sapevo che il giorno dopo ci avrebbero licenziato, che avrebbero chiuso le attività, che ci avrebbero invitati a restare chiusi in casa. Domenica eravamo a casa di mia madre in campagna perché il bambino era lì, perché era la Festa della Donna, e Michele e Stefania ci dicevano che si sarebbero sposati presto. Ci raccontavano di come lui gliel’aveva chiesto in ginocchio di fronte al Pantheon, la sera di San Valentino. Lei portava quell’anellone, ammetteva che le sembrava di avere il guinzaglio. Poi tornavamo dentro, mettevamo in congelatore una bottiglia di Ferrari perché dal Natale avanzano sempre le bottiglie peggiori, e ci scambiavamo opinioni su altri matrimoni. In quel posto si mangia bene; sì, dai, benino, però il posto non è bello; quell’altro ha una vista favolosa ma è molto caro. Poi finalmente i numeri: quanto si spende per un pranzo di nozze? 60-100-140? Numeri, vogliono i numeri.
L’Italia che conoscevo domenica voleva ancora i numeri.
Voleva sapere quante persone e che età avevano. Sono simili a noi? Sono simili a me? Loro dicono che non sarà un matrimonio come quello dei loro amici di Matera, non sarà come quello degli altri loro amici ebrei, no: si punterà tutto sulla simpatia, sebbene l’anello di mia cugina non faccia pensare a un matrimonio del genere.
Domenica scorsa si è parlato di questo per quasi tutto il pomeriggio, poi il giorno dopo era tutto rovesciato.
ROMA
La nostra Scénic del 2013 è parcheggiata davanti al garage di mia madre. Il cartello che ci avevo attaccato sopra la settimana scorsa dice: VENDESI. Ma la settimana scorsa non era come questa: andavamo nelle concessionarie d’auto della zona industriale, sceglievamo una macchina nuova, ci salivamo sopra, avevamo stipendi solidi, le nostre vite avevano contorni che avevamo tratteggiato, in attesa di riempirne gli spazi, unendoli con una linea. Nel pomeriggio noioso che aggiriamo, il bambino perlustra i dintorni dell’automobile. Abbiamo già giocato con il pallone, poi con le galline, poi con gli animali finti. Vuole entrare nell’auto, e io gli apro la portiera. Lui sul retro prende la tastiera che teniamo lì per farlo giocare quando viaggiamo, sfoglia il libro dei cavalieri e degli eroi, quello della gallinella rossa. Ma è davanti che vuole andare. Scavalca i sedili, si siede al posto del guidatore e io gli siedo accanto.
Guidi tu? Gli chiedo. Dove andiamo?
Lui mi guarda perplesso. Potrebbe dire: Là!, uno dei pochi concetti che riesce a esprimere a parole, ma non dice nulla, perché sta capendo che potremmo effettivamente andare in qualche posto, lui potrebbe guidare, portarmi altrove, fuori dal piazzale davanti al garage di mia madre, fuori da questa quarantena. Rimane a guardarmi e mette le mani sul volante, lo gira a vuoto, inizia a capire il gioco. Io gli dico: Andiamo a Roma, andiamo da papà, e lui mi guarda sorridendo e ripetendo la parola papà. Ora siamo dentro allo stesso ipnotismo, lui spinge i pulsanti sul volante, gira dove c’è da girare, preme dove bisogna premere, i suoi piedi galleggiano avanti e indietro e la sua concentrazione è massima. Inizia a parlare la sua lingua inventata, un gomitolo di suoni gutturali e nasali; snocciola un concetto e lo dice chiaramente, parlando con la sua torre di controllo, o forse proprio con me, ma io non capisco, e questo non gli cambia nulla perché stiamo partendo, stiamo andando a Roma, raggiungiamo suo padre per poterlo baciare in bocca e non vediamo l’ora di arrivare, superare le barriere batteriologiche, i nostri timori etici, i posti di blocco delle forze dell’ordine. Il bambino spinge il dito cicciottello sul pulsante rosso delle quattro frecce, e quelle si azionano. Così, al rintocco cadenzato di quel metronomo esatto, che nella mia testa significa attesa, ma non significa nulla nella sua, guardiamo il garage di fronte a noi e partiamo.