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The virus diaries

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Scritto da Marina Zucchelli il 26 febbraio 2020
Aggiornato il 30 aprile 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

 

AUTOSTRADA

Lunedì mattina squilla il mio cellulare, e sullo schermo leggo i caratteri magnetici del nome della società per cui lavoro. ‘Questa è una telefonata spiacevole’ dice il mio direttore di produzione, che ha quella voce lanosa. Io dico qualcosa, tipo: Capisco e Immagino, io immagino e capisco. Mi guardavo lo smalto che avevo appena messo e che avevo scheggiato già sull’anulare sinistro, portandomi capelli dietro all’orecchio. Siamo stati tutti sospesi, o quasi, e lavoreranno da casa solo quelli che hanno consegne da portare a termine. Sebbene fiscalmente non so bene cosa voglia dire ‘sospesi’, metto qualche cambio nello zaino del tennis, telefono a mio marito e gli dico che voglio andare in campagna, da mia madre, dove abbiamo già portato nostro figlio qualche giorno prima, dove abbiamo portato nostro figlio giovedì, alle sette di sera, con il pigiamino già messo, perché su Rai 3 il Presidente del Consiglio prendeva le prime misure e chiudeva le scuole, mentre finivo di cuocere la verza con le patate. Intanto facevo il bagnetto a mio figlio e aprivo e chiudevo WhatsApp perché sul gruppo delle mamme (che era silenziato) si alternavano notizie e smentite di una chiusura nazionale delle scuole. Mangiata la sua porzione di verza e patate, gli ho messo il cappottino sul pigiama. Mio marito rientrava e tutti e tre salivamo in macchina: direzione campagna, da mia madre, dove avremmo lasciato il bambino per poi tornare a Roma e andare al lavoro il giorno dopo e quelli a venire.
L’autostrada era quella di sempre, auto verso sud e auto verso nord. Io ero me, nell’auto, ma contemporaneamente restavo a casa mia, mettevo il bambino a letto, apparecchiavo per me e mio marito, stappavo una bottiglia di birra, lui rientrava e mi diceva “Mi faccio una doccia”, poi mi sedevo sul divano, sgranocchiavo un tarallo, stendevo le gambe, aspettavo Lilli Gruber e mi lasciavo folgorare dai suoi orecchini. Mangiavamo parlando piano per non svegliare il bambino, poi uno lavava i piatti, l’altra li asciugava e lo torturavo con la stessa cosa della sera prima: “Voglio fare un test di gravidanza”; lui mi diceva di aspettare, e quando ci mettevamo a letto, io con i calzini e lui senza, cercavo i suoi piedi, e tutto tutto tutto si srotolava delicatamente, una cosa si incastrava nell’altra, si sgravava come un rosario, come tutte le sere nel nostro appartamento.
Lunedì mattina però il telefono squilla per dirmi che non c’è più lavoro per me, e come gli evasi del carcere di Modena vanno al metadone appena riescono a metter piede in quella scatola che chiamiamo libertà, io decido di rimettermi in autostrada e andare dal bambino. Prima che chiudano le strade.
Quando arrivo a casa di mia madre lui dorme sul divano, accanto al caminetto. Suda il sudore dei bambini addormentati.

Mia madre è incredula nel vedermi, dico che ci hanno mandati tutti a casa, e poi rincaro la dose: le dico che ci hanno licenziati, e anche se non voglio allarmarla, allo stesso tempo voglio farle capire che la situazione è molto grave, forse perché dicendole così la misuro anch’io, la situazione, cerco di capire quanto sia davvero grave.

Il bambino dorme. Arriva mia nonna che vive lì, e a lei dico che ci hanno mandati tutti a casa.
Il bambino si sveglia e mi guarda. Io lo guardo, giochiamo come se non fosse successo niente. In campagna del resto non c’è nulla di diverso dal solito. Il paese arroccato è quello di sempre, pietroso sopra le nostre teste. Campane che suonano a ogni ora, ogni mezz’ora, gli uccelli sempre gli stessi.
Poi la sera arrivano le nuove misure del governo. Bar e ristoranti chiusi dopo le 18, e tutt’Italia diventa zona rossa. Eravamo protetti, ora siamo rossi. Mia nonna esce ed entra dalla porta sul retro, prima con un pezzo di legna per il camino, poi con una scatola di carciofini sott’olio, poi con un piccolo cestello di vimini per farci giocare il bambino, e infine una confezione di farina, e mi ricordo che tutti stanno comprando la farina, facendo la pasta fresca perché c’è poco altro da fare. Apparecchio la tavola, e lei dice che non ha mai sentito l’autostrada così silenziosa. Io alzo la testa sulla finestra, guardo quella striscia di velocità là in basso, quella strana forma torrentizia che ha fatto la fortuna di questa terra cinquant’anni fa, e che ora giace come mezza sepolta, e oltre a me e a mio figlio a cena lì di lunedì sera, è l’unica cosa diversa nella casa di mia madre.

PASTA FRESCA

La ragazza che abita dall’altro lato della strada, e con la quale sono cresciuta, mi scrive un messaggio. Mi scrive che ha saputo che sono tornata da Roma, mi scrive che ha preparato i cappelletti, con la ricetta di sua zia di Ferrara, e me ne vorrebbe portare un sacchetto per il mio bambino. Come dobbiamo comportarci? Le dico è magnifico, ma certo, grazie tesoro. Lei attraversa la strada tenendo per mano la sua bambina, e la sento chiamarci, con voci come lontane; io prendo per mano il mio di bambino e le vado incontro, verso il cancello chiuso. Apro il cancello, sì, ma non so come debbo comportarmi. Come devo comportarmi? Le dico di entrare nel piazzale, ci sediamo sul muretto, sotto la magnolia giapponese. I bambini si guardano, e la mia vicina e sua figlia ci raccontano quello che hanno fatto in questi giorni a casa: hanno fatto un cartellone, molti disegni, una torta di frutta. I bambini si vogliono toccare e noi diciamo amore, vieni qui e lei dice ai bambini che non si può giocare per adesso, perché gira un brutto raffreddore. Mi racconta che Maria l’infermiera le ha detto che stanno curando un bambino di un anno in ospedale. Un anno come il mio, di bambino. Le dico Questa cosa passerà, e lei si alza dal muretto pensando ch’io la voglia mandar via, e io cerco qualcosa da dirle per farle capire che non voglio che se ne vada, ma non trovo nulla nelle stanze svuotate della mia testa, perché non conosco i codici comportamentali di un virus. Così lei dice alla bambina che è quasi pronto il pranzo, io la ringrazio mille volte per i cappelletti, porto la bustina in cucina e la metto nel congelatore. Poi, mi lavo bene le mani.

MAGNOLIA GIAPPONESE

Cosa fare in campagna. È il titolo di un libro immaginario che sto scrivendo col pensiero. Perché in campagna non è come negli appartamenti, ci sono molte cose da fare, in questa stagione soprattutto. Mandorli e peschi hanno già finito di fiorire, mentre gli ulivi stanno cominciando e bisognerebbe potarli. Ma non si può, perché a meno che tu non ce li abbia sotto casa non puoi raggiungerli, non puoi andarci in auto – per dire –, e ammesso che tu e la tua autocertificazione riusciate a raggiungerli non puoi lavorarci in gruppo, dovresti mantenere le distanze, usare le mascherine che comunque non si trovano, insomma tanto vale far fiorire gli ulivi quest’anno e addio olio. Lo si comprerà al supermercato, perché comunque gli approvvigionamenti sono garantiti. La magnolia giapponese in questi giorni è carica sotto il peso dei suoi grossi fiori che si staccano come lunghi addii a ogni piccolissima folata di vento. Ogni fiore staccandosi dall’albero si divide in cinque o sei petali larghi come fogli. Spazzo sotto l’albero, con la scopa normale dove c’è l’asfalto, con la scopa di ferro sul prato. Il bambino capisce che lo sto facendo per gioco, e mi aiuta. Prende la paletta, io gliela riempio di petali. Lui la solleva con le manine e la svuota nella cesta. Poi torna da me per farsela riempire, come un cane obbediente, alla maniera seria dei bambini, in un loop magico.

La magnolia giapponese è quel tipo di magnolia che si è visto ieri sera nelle immagini del giardino della Casa Bianca, mentre Trump dichiarava lo stato di emergenza nazionale e noi cenavamo in silenzio, come vecchie di paese che le hanno già viste tutte e non si stupiscono più di nulla.

È una magnolia piuttosto bassa, che fiorisce di fiori rosa e viola, e poi diventa presto verde, come un grande cespuglio. Mentre raccogliamo i fiori, altri fiori comunque continuano a cadere, a precipitare, e sebbene stiamo lavorando duro cercando di contenere contenere contenere, altri fiori cadono sopra le nostre teste, sui capelli biondissimi di sole del bambino. E quanti più fiori cadono a terra tanti meno fiori restano sull’albero. Siamo dentro uno stranissimo quadro, un bizzarro hanami in cui non possiamo fermarci a vedere lo spettacolo della stagione che muta, perché dobbiamo pulir via le cose.

PASSEGGIATE

La sveglia naturale del bambino suona alle sette. É un suono invisibile, e lui gli obbedisce. Pensa che bisogna andare a scuola e invece si affaccia da un lettino da campeggio e mi guarda stordito. Io gli preparo la colazione e mi faccio un caffè, gli cambio il pannolino e lo vesto. Resto in pigiama, mi lavo i denti e usciamo in strada. Nessuna auto, qualche comignolo fuma, il silenzio di un normalissimo mattino di campagna. Saliamo la salita, passa la circolare, vuota, col conducente con la mascherina che suona il clacson e ci saluta con la mano. Passa un’auto, forse due, massimo tre. Controllo che chi è al volante porti la mascherina, ma non so neanch’io perché lo faccio. Sui tronchi degli alberi a cadenza regolare sono stati spillati dei fogli plastificati con la foto di un cane. Una cucciola di pit bull amstaff, sparita il 19 dicembre. Si chiama Elektra, è spaventata, non è abituata a stare da sola, se qualkuno la trova deve chiamare questo numero per favore. Immagino che sia passato Natale senza Elektra, senza una cucciola di pit bull amstaff.

Penso al nostro modo di classificare le infinite specificità delle specie, penso a una cucciola spaventata che non è abituata a stare sola, che vaga nelle campagne, impigliata fra i rovi, mi immagino di incontrarla, di salvarla, di chiamare quel numero. Potrei essere io quel qualkuno.

Guardo nell’erba che cresce al lato della strada, dove finisce l’asfalto, penso di riconoscere delle piante di cicoria. Il bambino nel passeggino si addormenta, io potrei benissimo continuare a camminare per ore, dedicarmi alla ricerca di Elektra anche se sono passati tre mesi dalla sua scomparsa, e potrei persino camminare in mezzo alla strada, perché non passa quasi nessuno, ma mi tengo al lato della carreggiata, cambio lato se la curva gira, perché qualcuno potrebbe arrivare a velocità eccessiva e investirci, ma non passa davvero nessuno. Così, fatti altri cento metri arriviamo alla croce e torniamo indietro, perché non so se posso farla questa passeggiata, se posso uscire, e a ogni albero su cui c’è appesa la foto di quel cane io guardo il muso di quel cane.

Qui la seconda parte del racconto.