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Un viaggio emozionale nella nuova Brera

Il nuovo allestimento del museo più bello di Milano è pronto, insieme al bar Fernanda.

Scritto da Lucia Tozzi il 4 ottobre 2018
Aggiornato il 5 ottobre 2018

Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti, Andrea Mantegna, 1470-1474, Tempera su Tela, 68 × 81, sala VI

Foto di © pinacotecabrera.org

Brera, intesa come Pinacoteca, ma anche come il complesso dell’Accademia, della Biblioteca, dell’Osservatorio astronomico, dell’Orto Botanico, e soprattutto come quartiere, ha oggi una connotazione così classica, così salotto buono di Milano, che pochi si ricordano della sua nascita e vita rivoluzionaria.
Il direttore James Bradburne, in carica da tre anni e da subito attivo nel rinnovamento del museo, ha voluto restituire al museo quella dimensione aperta, pubblica, generosa, turbinante di energia che lo ha caratterizzato dalla fine del Settecento, quando Maria Teresa d’Austria ne ha istituito il primo nucleo grazie alla soppressione dell’ordine gesuita, alla vera e propria fondazione napoleonica, quando il grosso delle opere è confluito nel palazzo in seguito alle campagne di spoliazione di chiese e conventi sotto la cura di artisti autorevoli come Giuseppe Bossi e Andrea Appiani, fino all’appassionata riapertura dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale voluta da Ettore Modigliani e da Fernanda Wittgens (cui è dedicato il nuovo caffè) e infine agli anni Settanta visionari di Franco Russoli, che ha concepito il progetto della Grande Brera con l’acquisizione di Palazzo Citterio.

Tutta questa storia è efficacemente evocata – e rivendicata – nella galleria di accesso alle sale, che guarda il grande gesso di Napoleone opera di Canova, ed è il primo segnale per il visitatore che la passeggiata che si avvia a fare per le 38 sale non ha nulla di polveroso: è una passeggiata a passo di marcia in un luogo vivo, potente, talmente denso di capolavori concentrati in uno spazio tutto sommato ridotto da non lasciare mai il passo alla stanchezza.
I nuovi colori, per lo più scuri ma saturi, insieme all’illuminazione eccezionale, sono uno stimolo fortissimo alla visione: a cominciare dai rossi che fanno da sfondo agli ori dei quadri e dei polittici medievali, ma soprattutto il blu intenso quasi pop della stanza dei veneti, quella del Cristo Morto di Mantegna.

Andrea Mantegna, Cristo morto. Nuovo allestimento con parete blu intenso

Il cadavere livido scorciato dai piedi, immagine culto della pittura italiana rinascimentale nel mondo, domina la sala dalla sua posizione isolata, ma non con uno stupido effetto Gioconda, oscurando gli altri capolavori, al contrario: sulle pareti sono allineati in un confronto serratissimo le Pietà e le Madonne con bambino dei due diversissimi cognati, Andrea Mantegna e Giovanni Bellini.

Il passaggio dalle piccole salette alla grande dimensione, sempre in area veneta, lo shock dell’immenso telero di Gentile e Giovanni Bellini è sempre in agguato: quell’assurdo paesaggio urbano mezzo Piazza San Marco e mezzo medina arabeggiante, con San Marco che predica in una immaginaria Alessandria d’Egitto in mezzo a turbanti e alti copricapi bianchi, è una scenografia vertiginosa.

Gentile e Giovanni Bellini, Predica di San Marco in una piazza di Alessandria d’Egitto

La sala successiva è dedicata a quel vero e proprio cinema che sono i dipinti di Veronese e Tintoretto: le cene (ultime e non) del primo, che tutto sembrano tranne che un evento sacro, col Cristo confinato a un lato della tela e al centro della scena cani, gatti, donne prosperose, nani e bambini. E il Ritrovamento del corpo di San Marco, un vortice pittorico con santi, cadaveri tirati fuori dalle tombe, indemoniati, appestati e al centro il committente con la sua mantella sfolgorante.

Vale la pena girare i tacchi di fronte al gesso di Napoleone, di nuovo visibile da una prospettiva laterale, per inoltrarsi nella galleria della pittura lombarda e imbattersi negli imponentissimi Uomini d’arme di Bramante: L’uomo dallo spadone, L’uomo dall’Alabarda, L’uomo dalla mazza, solo i nomi sono un programma. Strappati alle pareti della stanza dei Baroni dell’antica Casa Panigarola di via Lanzone, rappresentano a quanto pare i più grandi maestri d’arme del periodo, Pietro Suola il Vecchio, Giorgio Moro da Figino e Beltramo. Insieme a loro, Eraclito e Democrito divisi da un precocissimo mappamondo sospeso nell’aria e dalla diversa attitudine verso il mondo stesso, uno che piange e uno che ride.

Prima di arrivare ai pittori dell’Italia centrale è imperdibile la stanza dei ritratti veneti, dove è impossibile non essere rapiti dai due ritratti di Lorenzo Lotto, marito e moglie, speculari: Laura da Pola e Febo da Brescia.

Poi si passa dalla stanza del laboratorio di restauro, dove se se si è fortunati si può osservare il restauratore all’opera con tutti i suoi raffinatissimi strumenti (forse lui sarà meno entusiasta di stare là come in un peep show, ma gli tocca).
Poi arrivano i ferraresi e i marchigiani, con quelle assurde e meravigliose composizioni di frutte e fiori e perle trasparenti e rubini, e paesaggetti aspri e duri, come nei santi di Francesco del Cossa e nella Madonna della Colonnetta di Carlo Crivelli.

Poi, unica in grigio chiaro, la stanzona dei pezzi da novanta: Piero, Raffaello e il Cristo alla Colonna di Bramante, che invece nell’allestimento degli anni Cinquanta di Piero Portaluppi erano stati separati. Una lampada Brera di Castiglioni, che ricorda l’uovo della Pala di Montefeltro, pende ridondante dal soffitto.

Subito dopo le penitenze controriformistiche dei Carracci c’è l’unico ma potente Caravaggio di Brera, La cena in Emmaus, ora in prestito a Parigi. Per ritornare alla luce, si passa attraverso le vedute luminose di Canaletto nelle salette ellittiche della pittura settecentesca, e infine, in chiusura non solo del percorso ma della Brera “antica”, Il bacio di Hayez, icona abusata. Il resto sarà palazzo Citterio.

L’unica nota stonata sono le didascalie bianche, piene di kitchissime frasi di scrittori per lo più inglesi (ma orribilmente c’è anche Arrigo Cipriani, per fortuna non Oscar Farinetti) o di giocosi appelli ai bambini. Meglio non farsi distrarre e guardare i quadri, e se si vuole sapere qualcosa di più le didascalie in grigio, quelle dei curatori, che sono perfette.

Contenuto pubblicato su ZeroMilano - 2018-10-16