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Una cosa che mi manca di Roma: il San Calisto

Sogni d'una notte di mezza quarantena, da realizzare quando il Coronavirus sarà un ricordo

Scritto da Hattori Hanzo il 20 aprile 2020

Foto di Peter

Non è tanto quello che si serve, perché una Peroni fresca, un caffè o un amaro si possono sorseggiare comodamente anche a casa, facendo un’accurata lista della spesa per trasformare parte della cucina in un bancone da bar – fa eccezione la granita al caffè, per quella ancora bisogna essere del mestiere e avere i macchinari giusti. La questione è ontologica, relativa all’essere, il San Calisto è: punto.

Ed è Roma nella sua essenza: lo stare bene con due spicci, chiacchierare per ore senza dirsi niente di serio (e di vero) ingigantendo tutto alla Oscar Pettinari; la consapevolezza di essere una popolazione di sbandati, scapestrati e scansafatiche che si ritrova nel vivere alla giornata, perché quando c’è il sole si sta in giro a prenderlo e non ci sono cazzi e impegni che tengano; che i soldi veri sono ancora i dollari, quegli degli americani e dei turisti in giro, ai quali rubare sorrisi, baci e giri al bancone; che esistono sì cose importanti, ma vengono tutte dopo il pallone. Che basta un bicchiere, un tavolo e una sedia per essere felici. Che gli scontrini si fanno prima alla cassa. Che le insegne dei negozi una volta le facevano meglio. Che quello “Tune & Tomato” è sempre il tramezzino più buono del mondo. Appena finisce ‘sto casino giuro che vado lì in maratona dalle otto del mattino e per tirarmi via ci vorrà il carroattrezzi dei pizzardoni.