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Una cosa che mi manca di Roma: la Tangenziale Est

Sogni d'una notte di mezza quarantena, da realizzare quando il Coronavirus sarà un ricordo

Scritto da Hattori Hanzo il 1 maggio 2020
Aggiornato il 30 aprile 2020

Foto di Agostino Zamboni

Non è quella roba che mi sono rotto talmente tanto di stare a casa che ho nostalgia pure del traffico. Il traffico fa schifo, mi farà roteare le palle ad elica anche il primo giorno di via libera così come è successo sin dal giorno uno di patente. Non starò neanche qui a parlare dell’odore dei gas di scarico come se si trattasse dell’odore dei forni di paese che fanno riaffiorare, quelli sì, ricordi dolci e sopiti.

Si parla di andare al centro delle cose, riconoscere e riconoscersi. Della quintessenza della città: coatta, palazzinara, esagerata e stupenda anche nell’insensato. L’ebrezza del volo a venti metri dal suolo, ma senza ali: su quattro ruote e a ‘na piotta. Confluenze senza visibilità da affrontare con una mano sul cambio e una sul crocifisso, rampe d’uscite al limite del criminale, gallerie che Montecarlo scansate. L’adrenalina di imboccare la rampa alle 22:59. Lo sbrocco da porte di Tannhäuser quando il sole va giù e con un occhio riesci a vedere la Stazione Tiburtina e la sede della BNP buttate a caso sulla Tiburtina. Gesto futurista puro, donato dagli dei ai comuni mortali andare da San Giovanni all’Olimpico in tre minuti netti al netto dei semafori.

E poi il mezzo metro che separa in alcuni punti le corsie dai palazzi: una tensione costante da roulette russa che meriterebbe un posto d’onore in un museo d’arte contemporanea. E tutta Roma che perennemente si tiene così, in un equilibrio precarissimo che basta anche una sola goccia d’acqua per innescare l’entropia più lacerante. Appena esco di casa vado ad abbracciare un pilone, metto a palla Robert Hood e prendo in quarta il bivio per la Roma-L’Aquila.