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Viaggio (senza acidi) al centro del cortile

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Scritto da Roberto Casti il 26 maggio 2020
Aggiornato il 3 giugno 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

 

Sette.
Respiro a pieni polmoni e inizio a camminare. Difficile dire che giorno sia. Anzi, lo so: è domenica. Ma che importanza ha in questo momento? Certo, molti credono che i giorni si ripetano ormai senza troppe differenze. Mercoledì o domenica: è la stessa cosa. Ma invece no. Non è la stessa cosa. O meglio: potrebbe essere giusto dire che non c’è differenza a livello atomico tra ciò che succede un mercoledì rispetto a ciò che succede una domenica. Ma dalla prospettiva nostra, quella in cui mi ritrovo, vedo benissimo che il tempo passa, vedo che differenza c’è tra mercoledì e domenica. Perché il mercoledì precedente è già passato, quello successivo deve arrivare, mentre domenica è oggi. Lo so per certo. Come so per certo che non ha senso chiedersi se sia domenica su Marte.

Quindici.

Chiedersi se sia presente il presente in un punto lontano da me è come chiedersi se io riesca a vedere il colore verde come lo vede un’altra persona.

Quindi no, non è così difficile dire che giorno sia. Tutto brilla della stessa luce della quale la parola domenica è permeata. DO-ME-NI-CA. Sono le quattro note musicali che accompagnano questo mio viaggio all’interno del cortile. Le sento risuonare nella mia testa e mettono in atto una composizione che sa di sacro. Ma il mio perdermi in essa mi fa pensare a quanto in realtà tutto questo sembri demoniaco. Ci sono troppi suoni non umani. O meglio, sembra di essere all’inferno, perché i suoni umani sanno di prigionia. Mentre quelli non umani sanno di giubilo.

Trentasette.
E ora io sono al centro di questa tempesta di suoni, odori e colori. Questa è la mia ora d’aria. Il cortile mi permette di camminare attorno a una grande aiuola che ospita sei grossi alberi, un praticello e un’orribile fontana sporca che mi fa venire in mente un incidente stradale tra il brutalismo e una piscina comunale. Sono centoquarantadue i passi che devo compiere per fare un giro completo del cortile, ma ora sono a Quarantasei. Mentre cammino e giro all’infinito, mi dedico sempre all’ascolto in stereo di diversi suoni: sulla destra sento un ritmo latino americano, le mani di qualcuno che applaude, la voce di un bambino che forse sta giocando – o forse si sta drogando; sulla sinistra sento il vento che muove le foglie degli alberi, i passi veloci di qualche animale misterioso all’interno di un cespuglio, i versi di piccioni annoiati (e probabilmente delusi dalla desolazione di piazza Duomo). Cerco di creare, grazie alla mia mente, le immagini del bambino drogato e della bestia nascosta nei cespugli. Immagino lui con una bandana nera in testa, intento a far scontrare le action figure di Batman e Obama, mentre lascia sciogliere sotto la sua lingua qualche acido trovato per sbaglio dentro il marsupio del padre. La bestia del cespuglio la immagino brutta. E basta.

Settantacinque.
Guardo in alto fino alla cima dei palazzi. Sono quattro i condomini che dominano su questo cortile, anche se al momento sembra essere il cortile a dominare su di noi. Gli alberi, prossimi a raggiungere la complessiva altezza degli otto piani, generano ogni giorno l’unico vero paesaggio degno di essere visto. Sposto la mia visuale da balcone a balcone, immedesimandomi in una telecamera mossa da un carrello all’interno di un set cinematografico. Una donna pulisce il tappeto facendo roteare le piccole particelle di polvere nell’aria. All’interno di quella nuvola posso quasi scorrere pezzi di pelle, briciole, insetti morti e forse qualche batterio. Nessun virus però. Lo vedrei.

Ottantanove.
Esco da una zona d’ombra e incontro la luce del sole. Mi sento scottare e mi gratto la testa. Non sono abituato ad avere i capelli così corti. Improvvisamente mi ricordo di un film di Jarmusch. Solo i corpi sopravvivono / Solo i non vedenti sopravvivono / Solo gli anemici sopravvivono. Cerco di ricordare il titolo ma vengo interrotto da qualcosa di inaspettato che mi spaventa. In basso, su una pietra spaccata, vedo due lucertole che camminano. Giuro che con il labiale hanno tentato di dirmi qualcosa. Mi amano? Entrano dentro la crepa scomparendo. Belle le crepe. Ci sono mondi nascosti dietro le crepe. L’interno oscuro di quelle linee irregolari rappresenta un bug del sistema. Qualcosa che non abbiamo calcolato bene. Qualcosa di cui siamo al corrente, ma di cui non abbiamo il tempo né la voglia di preoccuparci ora. Posticipiamo la venuta di quel mondo. Ancora e ancora. Nel frattempo voltiamo lo sguardo e pensiamo ad altre cose.

Centoquattro.
Continuo la mia passeggiata sul lastricato e vedo una moneta da cinque centesimi. È ferma lì da giorni, ogni volta che passo la vedo. E penso sempre la stessa cosa: quante persone l’avranno vista e avranno avuto paura di prenderla? Un momento strano questo. Abbiamo paura dei contanti.

Ci fidiamo di quelli che non vediamo.

Gli altri, quelli fisici, possono portare brutte sorprese. La fisicità ha rotto il cazzo, come la qualità. Cammino ancora.

Centoventisette.
Mi fermo di fronte alla fontana brutalista uscita male osservando della melma sulla superficie dell’acqua. Vedo dei microorganismi al suo interno. Potrebbe sembrare un ecosistema a parte. Eppure mi pare proprio lo stesso in cui mi sento immerso io. Non esistono gli ecosistemi a parte. Guarda tesoro: quella piccola civiltà di esseri non senzienti va avanti non sapendo che arriverà prima o poi un flagello divino. Il grande pulitore, lo chiameranno. Colui che pulirà la vasca portandoli tutti all’estinzione, poveri. Poveri noi. Ma ora mi sento osservato. Da chi o cosa non lo so. Potrebbe essere colpa del signore appoggiato alla balaustra del balcone, coperto da una bandiera dell’Europa. Potrebbe essere colpa delle formiche che mi stanno salendo sulle scarpe. Continuo a camminare e arrivo al traguardo.

Centoquarantadue.
Basta. Perché continuare a girare? Entro dentro l’aiuola, voglio toccare l’erba. Voglio toccare. Voglio sentire qualcosa di sudicio. Voglio capire se i miei sensi funzionano ancora. Voglio capire se riesco a disgustarmi veramente per qualcosa che tocco e non per qualcosa che so che esiste ma che non vedo. Mi corico sopra una specie di pianta rampicante bassa. Vengo ricoperto totalmente. Sono sprofondato. Sento qualcosa che si muove. Un topo? Un ragno? Un topo ragno? Mi vengono in mente i cammelli. Che buffi i cammelli. Forse sono buffo anche io in questo momento. Sento un ronzio. Un’ape si appoggia sul mio naso e mi guarda. Mi entra nella narice e glielo lascio fare. Lo so che non gliene frega niente. Allora farò finta di fregarmene anche io. Freghiamocene a vicenda. Come due amanti orgogliosi: l’uno che aspetta il primo passo dell’altra.