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2501

Leggere gli spazi negativi nei ruderi postindustriali

quartiere Bovisa

Scritto da Piergiorgio Caserini il 5 aprile 2022
Aggiornato il 11 aprile 2022

Jacopo Ceccarelli, in arte 2501, è un locals della Bovisa. Tanto locals da vedere ovunque il bosco selvatico attorno ai gasometri, l’architettura industriale, l’abitato e il disabitato. Anche il lavoro di Jacopo – cominciato nel muralismo, a fare i treni e i graffiti allo Scalo Farini, e travasato nell’arte concettuale – fonda i suoi concetti pittorici nell’approccio allo spazio postindustriale, al rudere e alla ruggine. Insomma: un’immagine pittorica, segnica, del paesaggio della Bovisa.

Pensa ai treni, per esempio: una pittura che è tutta superficie, un’idea di dipingere che è velocità, un’idea di pittura che si dà nel movimento.

Negative Space

Quando ci siamo conosciuti abbiamo parlato soltanto della Bovisa, di come questi paesaggi di quartiere ricorrano nel tuo immaginario pittorico e audiovideo. Quali sono gli aspetti di questo territorio, di questo paesaggio, che ti hanno formato?

Considera che la mia famiglia vive qui da tre generazioni, e io sono cresciuto qui, anche come artista. Seppur abbia studiato cinema e poi comunicazione visiva al Bauhaus di Weimar, la mia formazione pittorica si può inquadrare bene nelle suggestioni urbane che la Bovisa mi ha dato. È alla base della mia storia, della mia ricerca estetica, a partire soprattutto dalla fascinazione per gli spazi e le architetture postindustriali, che hanno contribuito non poco alla definizione di un immaginario. A partire dai primi treni pittati per arrivare ai muri nello Scalo Farini – in cui per tanti anni sono andato a dipingere – fino ai gasometri del parco La Goccia – in cui ho dipinto, allestito installazioni, fotografato – tutti questi spazi sono stati, in maniera più o meno diretta, il grosso bacino della mia formazione visiva. Tutto quello su cui lavoro oggi arriva da lì.

Ci fai un esempio?

Animated Landscape, un progetto che sto portando avanti da tempo, che è passato per il nuovo MAXXI all’Aquila, e che si concentra su land art, in particolare sulla land effimera. Parliamo di un’idea di pratica non più concepita come qualcosa legata alla natura, al paesaggio “naturale”, ma al paesaggio sociale. Ai movimenti paralleli che le azioni ambientali hanno con l’intorno, con le geometrie dell’architettura e del territorio. Anche qui, nelle riprese con i droni, nell’uso di un certo immaginario visivo, ricorrono le suggestioni industriali della Bovisa.

Come comincia il tuo lavoro d’artista?

Il mio lavoro comincia dal muralismo, dal dipingere facciate. Poi ho anche un sito, nomadic experiment, in cui raccolgo tutti i video che realizzo – sono una valanga – e che hanno tutti a che fare con una lettura della città. Perché in fondo, anche a livello pittorico, è questo che faccio. Riflettere sugli spazi, sui modi che hanno di comporsi, e quindi su cosa sia a livello di occupazione dello spazio la gentrificazione per esempio, o un certo tipo di urbanismo. D’altronde la mia pittura arriva da un certo rapporto con l’architettura industriale e le sue rovine, e per necessità ho dovuto cercare il rapporto con quegli spazi, pensando a come usarli, a come vivere certi luoghi o certe pareti. Pensare a strutturare la mia pittura. Tutte procedure e pratiche che ho via via, negli anni, documentato con i video.

 

Dici che hai dovuto strutturare la tua pittura, la tua pratica, rispetto allo spazio. Vuol dire anche pensare, magari costruire, concetti pittorici. Cosa c’è alla base del tuo modo di fare pittura?

Per quanto riguarda il lato pittorico, si tratta più che altro di una descrizione della temporalità della pittura. Dei suoi tempi di messa in opera, che sono ovviamente in relazioni alle superfici. Io non dipingo delle composizioni che ho prestudiato o prepensato, ma rappresento l’occorrenza di un certo quantitativo di tempo su un dato muro o una data superficie. Qui si vede, come ti dicevo prima, la mia provenienza. La mia esperienza. Pensa ai treni, per esempio: una pittura che è tutta superficie, un’idea di dipingere che è velocità, un’idea di pittura che si dà nel movimento. Ma anche una pittura performativa se vuoi, rispetto allo sguardo. Che se fatta in un deposito rimane dov’è, nascosta, ma se fatta su un muro determina un certo tipo di visione. Poi ci sono tematiche che sono prettamente mie e che ricorrono in continuazione in tutto quello che faccio, per esempio il concetto di “spazio negativo”, che sarebbe l’uso e la considerazione del non-disegnato. Anche qui penso alle fabbriche, all’esperienza nei ruderi d’architettura industriale, dove non ha senso cercare di ripulire le pareti ma si cerca piuttosto di intraprendere un dialogo con quello che c’è, con le pareti e le vetrate, con l’intonaco che si stacca, insomma si cerca un rapporto con le tracce di tempo che un edificio si porta addosso. Mentre se lo spazio è privato, lo “spazio negativo” è il bianco nella sua assolutezza, e allora le ombre. Su Nomadic Experiment ci sono un po’ tutti questi fili che legano la mia ricerca: video che hanno un titolo, una data, un luogo, i materiali con cui si fa un certo esperimento, insomma: tutti i dati di un evento. Tutto pare da un’idea di adattamento, del collaborare con quello che c’è.

Se ti dovessi chiedere come raccontare il quartiere a partire dalla tua formazione estetica, come inquadreresti la Bovisa?

Gli archetipi estetici che uso arrivano molto dalla Bovisa, dal territorio che ho vissuto qui ma anche da dagli anni trascorsi a San Paolo in Brasile. Non ci crederai, ma in qualche modo questi due paesaggi – il quartiere periferico e popolare della Bovisa e la megalopoli di San Paolo – si richiamano l’una con l’altra. Ci sono aspetti che le collegano. Per esempio, la Bovisa è ancora uno di quei pochi quartieri che ha tutta un’estetica “odierna”, dal campus del Politecnico agli edifici più recenti, ma che conserva una grande porzione di verde selvatico, di boschivazione spontanea attorno all’area dei gasometri, per non parlare poi delle architetture industriali. Ecco, sono tutte suggestioni che mi riportano a San Paolo: una città accerchiata dall’armata atlantica, con veri e propri pezzi di giungla che entrano nella città, aree che al centro prendono più la forma del parco. Poi si tratta di una città che passa repentinamente da parti abitate, con negozi, vetrine, appartamenti ricchissimi e così via, ad aree dismesse. Sia per la Bovisa che per San Paolo c’è questa idea fondamentale di una città poco ordinata – diversamente dalle direzioni che le città stanno prendendo – e che proprio per questo è un continuo brulicare di possibilità. Per me la Bovisa è ancora questo. Nel momento in cui vuoi entrare a La Goccia puoi, e puoi fare quello che vuoi: dipingere, costruirti una baracca o una casa, passeggiare… insomma, rappresenta una Milano che sta scomparendo, che preferisce un altro tipo di vivibilità.

Avendo quarant’anni, il mio gusto e il mio piacere di vivere certi posti arriva anche da una storia – che è un periodo della mia vita – di spazi occupati. Penso al Bulk, ma anche al Manamanera che era proprio di fianco a quello che oggi è lo Spirit de Milan. Insomma, quello che ritrovo qui e da nessun’altra parte della città è la sensazione di avere un balzo nel tempo. Da una parte siamo a quindici anni fa, dall’altra nel futuro della città. Ora tutti questi nuovi lavori porteranno la Bovisa a essere più centro, più simile ad altri quartieri. Lavori che oltre che riguardare strettamente il quartiere riguardano anche la città, e proprio per la loro entità. Rimane però una suggestione, qui, che se vuoi è meno europea rispetto al resto di Milano. Meno bellina e magari un poco più sporca, ma dove la dimensione di quartiere rimane, ed è la stessa che avevo a quindici anni.

Per dirti, il sabato mi sveglio e vado a fare una passeggiata alla Goccia, cosa che non è possibile in un luogo come, per esempio, Brera. Qui ancora oggi esco di casa e la cosa più odierna che incontro sono gli studenti del Poli. Poi migranti, gente di zona da trent’anni… insomma questa è la fauna che si trova qui.