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Afrodeutsche

La dj e compositrice ci racconta il suo percorso artistico e la ricerca della sua identità ricordandoci l'importanza di rimanere gentili ed onesti con sé stessi

Scritto da Laura Caprino il 11 aprile 2023
Aggiornato il 10 aprile 2023

Henrietta Smith-Rolla è poliedrica, innovativa, una tavolozza di diverse influenze e sfide artistiche. Sotto lo pseudonimo di Afrodeutsche, si rivela una bambina innamorata del suono e curiosa di apprenderne le sfaccettature, per essere in grado di raccontare storie (soprattutto la sua), a chi la ascolta. Apprendendo dai film e dai dischi cosa la musica significhi per lei, ha sperimentato praticamente ogni tipo di formato sonoro: soundtrack di documentari e TV, composizione d’orchestra, piano, DJing e beat per il dancefloor. Erede della scena rave britannica anni 90, Afrodeutsche è un’artista sincera, introspettiva sui suoi limiti e gentile con le sue debolezze, consapevole che cuore ed emozioni siano la sua forza motrice. Un esempio virtuoso di talento e carattere, incoraggiante nell’essere fieri di se stessi e degli obiettivi raggiunti, e di essere coraggiosi nell’andare avanti anche quando la mente è il proprio peggior avversario.

Connettersi con la propria identità in quel momento.

Dalla Boiler Room del Dekmantel, al clubbing di Manchester fino al canto e alla musica lirica, Afrodeutsche è il pacchetto completo, armonizzazione perfetta ed umile di elementi sublimi.

Laura Caprino: Ti sei spesso attribuita la definizione di “figlia dell’analogico”, rispetto all'era digitale in cui viviamo. Cosa ti rende tale? I tuoi sentimenti verso l’analogico rappresentano una forma di protezione verso l’immaginazione e la creatività?

Afrodeutsche: È una scelta che riguarda la mia mente dal punto di vista sonoro. Se suono un brano in digitale molto probabilmente avrò bisogno di tornare a casa e riascoltarlo in analogico, per esempio su vinile, quasi come se ripartissi da zero. Il mio cervello quasi non riesce a processare troppo il digitale, e lo stesso accade quando compongo. Se sto scrivendo musica elettronica mi ci immergo e focalizzo nell’ascolto, ma mi capita a un certo punto di pensare: “Ora ho bisogno di ascoltare un po’ di Michael Nyman, o la musica per pianoforte che ho scritto per sentirmi a casa e poter elaborare quello che sta succedendo intorno a me”. Non credo di preferire l’analogico al digitale, ma sono certa di aver bisogno dell’analogico per armonizzare gli elementi della mia vita.

LC: Che impatto ha avuto sulla tua arte la tecnologia digitale? Qual è il tuo rapporto e quello della tua musica con l’innovazione e il progresso?

A: La tecnologia è stata quasi la pietra angolare del mio percorso. Quello che immagino e idealizzo nella mia mente in qualche modo riesco a riprodurlo grazie agli strumenti che ho a disposizione. Sin dal primo istante in cui ho iniziato a usare Ableton è diventato la mia porta per accedere a tutto quello che posso creare. Lo uso persino per le colonne sonore di TV, film e documentari, perché ci si possono inserire le immagini. Quando mi viene un’idea, qualcun altro prima di me ha inventato o programmato qualcosa che mi offre le modalità per materializzarla. Non si tratta di una tecnologia completamente nuova, anzi, è antica. Per esempio, spesso ho lavorato con un Kyma che è fondamentalmente un computer molto, molto vecchio. Strumenti meno recenti non propongono un suono drasticamente diverso, ma decisamente elettronico. Molti grandi compositori li utilizzano per dare un senso sonoro alle cose. Inoltre, per mettere insieme le mie tracce e per ricordare a me stessa come funzioni l’arrangiamento, torno sempre indietro alle radici, alla musica classica. Ho bisogno di tornare a quel linguaggio per decodificare l’emozione, la profondità.

 

LC: Come cittadina ghanese di prima generazione nel Regno Unito, qual è il tuo rapporto con la tua comunità? Nata nel Devon, cresciuta fra Manchester e Londra, senti di appartenere a un luogo in particolare o a tutti contemporaneamente?

A: Sento di essere una persona fatta per le nazioni. Ognuna mi rispecchia e mi appartiene. Ho avuto nella mia vita e carriera modo di viaggiare e scoprire il mondo, ed in ogni Paese sento che c’è posto per me, in qualche modo. Mi capita spesso di pensare molto all’America, ma il mio cuore è sicuramente a Manchester, legato alla scena, a quella storica dei rave e al pop britannico.

LC: La ricerca delle tue origini e background ha influenzato il tuo percorso creativo. In che modo? Come sono cambiate la tua ispirazione artistica e la tua produzione da quando hai abbracciato questi nuovi elementi della tua identità?

A: Penso che, poiché sono stata in grado di esprimermi liberamente attraverso la mia musica e le mie scelte, è quasi come se questo avesse plasmato la mia identità, come se avesse chiuso un cerchio. Probabilmente sto vivendo la fase migliore in cui sia mai stata nel rapportarmi con la mia identità, e questo ha tutto a che fare con la mia fede. Mi sento infinitamente grata. È stato sicuramente un viaggio enorme, che tra l’altro non è ancora finito. Ma credo che tutti noi attraversiamo prima o poi una fase in cui siamo alla ricerca di un’identità: bisogna essere onesti su dove si è, su chi si è quando si crea qualcosa, perché si tratta di connettersi con la propria identità in quel momento. Oggi è quello che sono, non domani, ma oggi. Oggi è quello che sono e lascio che il domani si preoccupi di se stesso.

LC: Ritieni che l'arte ti abbia aiutato a formare ed esprimere la tua voce nel promuovere idee, valori e cause in cui credi?

A: Dal punto di vista sonoro, cerco sempre di fare spazio: non credo che la mia musica suoni o assomigli a nient’altro. È molto difficile inserirla in una categoria, e il motivo per cui dico questo è che in tanti avvertono il bisogno di definire la musica e l’arte per poterla condividere, per poterne parlare o anche solo per bookare uno show. La musica è elettronica, eterea, emotiva e non si adatta mai a nessun luogo.

Quando ho scoperto Drexciya, ad esempio, mi sono detta: “Aspetta un attimo, non ho mai sentito niente di simile!”. Per me era come una composizione classica futuristica. Se quei ragazzi fossero stati in circolazione ai tempi di Mozart e se avessero avuto a disposizione la tecnologia attuale, i loro album sarebbero stati il suono che re, regine e imperatori avrebbero commissionato. 

È proprio così che è nata la musica classica, commissionata da persone facoltose. Costa molto avere un’orchestra, un direttore d’orchestra e un compositore. Dunque, quando ho ascoltato Drexciya mi sono detta: “Non c’è niente di meglio di questo”. E ho voluto riprodurre qualcosa di simile. Con la mia musica mi sento sempre come se stessi facendo spazio al progresso, a quello che non c’era e ora c’è. È accettabile creare un brano di sette minuti e mezzo senza voce, suona bene e racconta una storia. Non sarà Miley Cyrus, ma va bene comunque, non deve esserlo per forza.

 

LC: In quanto artista donna, ti senti supportata dai cambiamenti e dai passi avanti raggiunti nella scena musicale?

A: Non mi sento ancora supportata, ma sono contenta di aver ritagliato più spazio per me e di averne creato per gli altri. Credo di aver imparato molto dall’esperienza, affrontando prove, problemi e superando ostacoli. 

Mi sento in difficoltà quando viene usata la parola empowered, perché per me essere empowered personalmente significa non avere spazio per essere debole, e io non sono sempre forte, non mi sento sempre all’altezza. È quasi come se preferissi che ci fosse spazio anche per la vulnerabilità, piuttosto che per il solo essere forte e invincibile, perché ci troviamo tutti in momenti diversi della nostra vita, no? 

Siate gentili con voi stessi, non state combattendo una battaglia da pionieri. Probabilmente cambierei l’uso della parola empowered con “rafforzato”. Si tratta pur sempre di intraprendere un percorso di crescita ed evoluzione, ed essere molto più forti di come si era all’inizio.

LC: La tua musica è molto versatile: passi dalle registrazioni su cassetta dei rave in UK, al clubbing e alla techno, fino a musica classica, pianoforte e colonne sonore per film e documentari. Questo fa di te una storyteller a 360 gradi. C'è un filo conduttore che unisce produzioni così diverse? Qual è l'ingrediente che le caratterizza tutte, la tua firma come Afrodeutsche?

A: A livello personale, credo che sia molto importante essere onesti con se stessi nel momento in cui si sta facendo il proprio lavoro, perché può sembrare che sia facile o che sia sempre una grande gioia, ma in realtà, mentalmente, potresti non star vivendo un buon momento. Nonostante questo, sei comunque tenuto a consegnare il lavoro che ti viene commissionato.

Quindi l’onestà in questo aiuta davvero perché influenza il lavoro che si fa. Se si sta operando su qualcosa di emotivo e non si è al massimo, questa energia può essere catalizzata. Credo che questa sia probabilmente la mia firma personale nella musica che creo, che è totalmente legata al mio cuore.

Sono io, non c’è nessun altro. È dove si trova il mio cuore.

Credo che dal punto di vista sonoro la mia firma sia, invece, l’arrangiamento; sono brava in quello e penso che derivi anche dal percorso da DJ. Negli arrangiamenti bisogna osservare l’insieme, gli elementi del tutto: in questo modo si cura come l’ascoltatore comprende ciò che sta percependo con il suono.

 

LC: Avresti mai pensato che questo universo caleidoscopico di produzioni differenti sarebbe diventato la tua carriera, quando hai iniziato a fare musica?

A: Fin da piccola ero ossessionata dal suono. A sei anni ho ottenuto una borsa di studio per suonare il violino. Ho guardato un’infinità di film e li ho studiati, ho guardato i musical, li capivo anche se non sapevo leggere la musica, con una comprensione innata del suono e di come collocarlo. Mia madre mi ha raccontato che quando avevo circa sei anni, abbiamo guardato un film e al momento dei titoli di coda io le ho detto: “Un giorno il mio nome sarà fra quelli”. 

Il mio sogno è sempre stato quello di comporre per un’orchestra, ma non sapevo che fosse possibile per me. Così, crescendo, non mi sono dedicata a studi particolari, non sono nemmeno andata all’università. Ho lasciato il college e mi sono trasferita a Londra. Il modo in cui la mia carriera è andata avanti, per me è straordinario.

LC: Quali sono i tuoi progetti attuali e futuri?

A: Ho appena annunciato che a luglio suonerò al Manchester International Festival al Factory building, che è una nuova location, e sono la prima in assoluto a suonarci. È il mio nuovo spettacolo dal vivo e sarà enorme. Suonerò con la Manchester Camerata e Robert Ames dirigerà l’orchestra. Io suonerò il pianoforte, canterò con l’orchestra, ci sarà musica elettronica, tutto insieme. Inoltre, sto anche lavorando alla mia prima colonna sonora per una serie televisiva!