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Andrea Dulbecco

Tra i più importanti vibrafonisti a livello internazionale, Andrea Dulbecco è uno dei componenti storici dell'ensemble Sentieri selvaggi: in occasione dell'appuntamento dell'8 maggio 'Composing / Improvising', abbiamo conversato con lui della sua formazione, di jazz, contemporanea e molto altro in questa intervista.

Scritto da Anna Girardi il 7 aprile 2017
Aggiornato il 26 maggio 2017

Foto di Giovanni Dariotti

Luogo di nascita

San Remo

Luogo di residenza

Milano

Attività

Musicista

Composing / Improvising è il titolo del prossimo appuntamento nell’ambito della ventesima stagione di Sentieri selvaggi, in programma lunedì 8 maggio all’Elfo Puccini. La serata è stata interamente organizzata da Andrea “Andy” Dulbecco, componente dell’ensemble fin dagli esordi. Alto, magro, allegro e poco appariscente, Andy è considerato fra i più importanti esponenti del vibrafono a livello internazionale. In questa intervista ci racconta di sé, del suo percorso e del concerto di lunedì.

ZERO: Sei ligure, di San Remo. Come sei arrivato a Milano e come ti sei avvicinato alla musica?
ANDREA DULBECCO: In casa ho ascoltato jazz fin da piccolo, mio papà prima di entrare in banca faceva il musicista jazz. È la musica con cui son cresciuto e che mi ha spinto a voler fare il musicista. Sono arrivato a Milano un po’ casualmente: studiavo musica in una scuola locale di San Remo e suonavo in un’orchestra sinfonica in cui è arrivato un timpanista molto bravo, allievo del mio futuro insegnante a Milano. È stato lui a spronarmi e convincermi a venire a Milano per fare l’ammissione in Conservatorio. Abbiamo preparato l’esame di ammissione e mi sono trasferito a Milano per seguire le lezioni.

Chi è stato il tuo insegnante?
Sono stato molto fortunato perché a Milano in quegli anni c’era una delle migliori classi di percussioni, tenuta da Franco Campioni. Franco era un timpanista dell’Orchestra della RAI e aveva un modo di insegnare piuttosto lungimirante per l’epoca: faceva suonare i suoi ragazzi portandoli in orchestra con lui. Ha anche creato un gruppo di percussionisti del Conservatorio con cui abbiamo fatto molti concerti, per cui ho avuto un’ottima formazione. Era inoltre un grande appassionato di jazz – era anche batterista jazz – per cui mi sono trovato subito a mio agio.

Venivi dal mondo del jazz: come è stato il primo impatto con l’approccio accademico del Conservatorio?
Il Conservatorio, pur con tutti i suoi difetti e i limiti, dà solide basi, insegna a leggere la musica, a suonare con gli altri. Mi è servito per avere una struttura e un metodo di studio. Essendo per mia natura abbastanza diligente il primo impatto non è stato più di tanto scioccante, forse lo è stato di più il fatto che a quindici anni ero uscito di casa per venire a Milano.

Dove abitavi?
Inizialmente in un collegio, poi mi sono spostato in una casa con altri ragazzi ed è stata un’esperienza bellissima che consiglierei a qualsiasi ragazzino. Da subito ho cominciato a suonare in giro e cercare di guadagnarmi da vivere. Tutte queste sono state esperienze molto formative, oltre che divertenti.

Com’era la Milano di allora?
Quello che dico va filtrato attraverso gli occhi dell’adolescente che ero allora. Era una Milano molto diversa da quella di oggi. Adesso è una città molto più simile alle grandi capitali europee come Berlino o Parigi, seppur più piccola. Negli anni ’80 era più italiana, più provinciale. Anche se, per l’Italia di allora, era già una città all’avanguardia. Magari le istituzioni non lo sanno o non se ne accorgono, ma a Milano c’è e c’è sempre stato un humus molto vivo, un fermento molto attivo; c’è una fetta di intellighentia, di intellettuali e creatori, che riescono a far sì che si respiri sempre una grande energia.

Musicalmente parlando com’era la Milano di quegli anni?
Rispetto alla realtà di allora, adesso probabilmente manca la continuità. Nel campo della musica classica quando studiavo in Conservatorio e quando ho iniziato a suonare c’erano l’Orchestra dell’Angelicum, I Pomeriggi Musicali, l’Orchestra della RAI di Milano e La Scala. Quattro orchestre in piena attività. Durante gli anni ’90 tutto il sistema ha iniziato a scricchiolare. Ha chiuso l’Angelicum, che poi ha ripreso come Milano Classica ma non senza difficoltà; ha chiuso la RAI; i Pomeriggi Musicali hanno passato i loro anni difficili. Adesso ci sono tante orchestre semi-stabili mentre una volta c’era sicuramente più spazio per suonare in enti stabili.

E per quanto riguarda i club?
C’erano quelli storici, come il Capolinea o le Scimmie, dove c’era una programmazione costante di musica dal vivo mentre oggi purtroppo mi sembra che nascano e muoiano.

Se dovessi consigliare oggi a Milano dei posti dove andare a sentire della buona musica jazz?
Ultimamente il migliore in cui mi è capitato di suonare è il Masada: bello spazio, si può sentire del buon jazz, c’è una buona programmazione e c’è un pubblico attento. Il Bonaventura è carino ma faccio fatica a indicarne altri, soprattutto per quanto riguarda l’ascolto. Spesso c’è casino, non c’è un pubblico educato da parte del gestore. Mi viene in mente La Buca di San Vincenzo, che ha ricominciato da poco a fare programmazione e quindi deve un po’ ricreare il giro. Mi è capitato di suonare lì poco tempo fa in duo con Bebo Ferra ed è venuta fuori una serata molto bella. Mi sembra che facciano jazz il mercoledì e il giovedì ma non è ancora girata la voce quindi c’è poca gente.

Spesso parlando di te si dice “musicista di musica contemporanea e jazz”. Pensi sia ancora così evidente questa frattura? Oramai ci sono continue contaminazioni tra i generi e anche il concerto di lunedì mi sembra stia andando verso questa direzione… giusto?
È vero quello che dici, però noi viviamo in un Paese in cui queste due pratiche sono ancora molto separate. Nella musica colta occidentale è scomparsa l’improvvisazione, cosa che ogni musicista classico in passato faceva. Era prassi comune – non solo di musicisti jazz, folk, pop o rock. Questa usanza nella musica colta è scomparsa con il secolo scorso. Per un gruppo come Sentieri selvaggi, cui piacciono molto le contaminazioni e cui piace molto scandagliare i vari ambiti del contemporaneo, era fondamentale dedicare uno spazio anche all’improvvisazione. Negli anni passati abbiamo invitato delle persone esterne al nostro gruppo, quest’anno invece Carlo Boccadoro ha chiesto che fossi io a organizzare qualcosa.

Di fatto però non c’è molta collaborazione nel mondo della musica tra chi improvvisa e chi fa musica scritta perché sono come due famiglie diverse che spesso non collaborano. È vero che sono molto più labili i confini della musica colta contemporanea e il jazz d’avanguardia, però c’è ancora una concreta difficoltà a far sì che le cose si incrocino. Anche all’estero è così?
Dipende ovviamente da paese e paese e da città e città. A Parigi, dove ho vissuto per un anno, anche dal punto di vista istituzionale si cercano di creare contatti e commistioni tra i generi. Al Théâtre de la Ville propongono piece teatrali con musica contemporanea, balletti con i musicisti etnici, cercano di organizzare delle performance in cui i vari generi interagiscano. In Italia o c’è A o B o C, e forse in questo senso dimostriamo di essere un po’ vecchiotti.

Si insegna a improvvisare o è un’arte innata?
Logicamente uno può essere più o meno portato. Però lo studio è fondamentale, seppur non tutti la pensino come me. Studiando si possono ottenere dei miglioramenti che non ci si aspettava, si possono scoprire doti che non si pensavano di avere, per cui si studia anche per imparare a improvvisare. Non esiste una improvvisazione completa e assoluta: si riesce a improvvisare attingendo, consciamente o inconsciamente, al proprio background di esperienza musicale, di ascoltatore. Studiando si fa proprio un serbatoio di idee, figure, stilemi, figure musicali che vengono poi riproposte estemporaneamente. Più il bagaglio è ampio più tutto questo risulterà semplice e spontaneo.

Il repertorio di uno strumento come il vibrafono è molto legato a quello dell’improvvisazione. Per questo hai deciso intraprendere questa strada?
In un primo tempo volevo suonare sia la batteria sia il vibrafono, perché erano gli unici due strumenti della famiglia delle percussioni legati al mondo del jazz. Poi. per una serie di ragioni – ad esempio che nella classe di percussioni non si studia batteria o perché con la batteria era più difficile inserirsi nell’ambiente musicale jazzistico degli anni ’80 – piano piano ho iniziato a studiare sempre più il vibrafono. Successivamente ho incontrato David Friedmann, uno dei massimi vibrafonisti contemporanei, che mi ha talmente entusiasmato da portarmi a scegliere il vibrafono come strumento principale. Sono andato da lui a Berlino a prendere delle lezioni che sono tra le più belle che io ricordi: andavo a casa sua, mi mettevo al pianoforte e lui al vibrafono, poi ci scambiavamo, suonavamo pezzi miei, pezzi suoi, incredibile…

Quali sono stati gli incontri che ti hanno cambiato la vita?
Franco Campioni è stata la persona che mi ha accolto e cresciuto qui a Milano, quindi sicuramente lui è il primo della lista, seguito da David Friedmann: come appena detto è grazie a lui che ho capito cosa volevo fare veramente. E poi tantissimi musicisti, sia nel mondo classico sia in quello jazz, con cui mi è capitato di lavorare. Tra questi Riccardo Fioravanti, che è stato uno dei primi musicisti, molto inserito nell’ambiente jazzistico milanese, con cui ho incominciato a suonare: lui mi ha dato l’opportunità di conoscere un giro di jazzisti già affermati. Un altro è Furio Di Castri, uno dei più bravi contrabbassisti jazz europei, con cui ho avuto in trio in passato insieme a Mauro Negri. Anche Mauro è stato molto importante per me, sassofonista eccezionale.

E nel mondo della musica contemporanea?
Carlo Boccadoro, a cui sono legato da un’amicizia quarantennale quasi. Un altro musicista che spesso ricordo, per quanto l’abbia incontrato episodicamente, è Luciano Berio, un grandissimo della musica contemporanea con cui ho avuto la fortuna di scambiare qualche opinione e suonare la sua musica. Con lui ho suonato in orchestra – diretto da lui – e in un ensemble da camera. L’ho conosciuto di persona a Firenze, dove ero stato invitato a suonare, insieme a un gruppo, nella stagione Tempo Reale che lui dirigeva. In seguito aveva invitato me, Andrea Lucchesini e Pietro De Maria a Santa Cecilia, perché avevamo un quartetto in cui eseguivamo anche un suo brano.

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Sorge quindi spontanea la domanda: quali sono i compositori che senti più affini?
Per quanto riguarda la musica colta contemporanea Luciani Berio e György Ligeti sono fra i miei musicisti preferiti. Anche se sono nomi già storici ormai. Parlando di un ambiente più milanese ci sono dei brani di Ivan Fedele e Luca Francesconi che amo molto. Nel mondo del jazz ci sono diversi compositori del passato e musicisti che trovo molto vicini alla mia sensibilità come Jimmy Giuffre, Steve Swallow, Ralph Towner; anche dal punto di vista compositivo mi attraggono molto, così come Keith Jarrett. I nomi che ti ho fatto in realtà sono di musicisti ormai settantenni e in questo forse dimostro di essere invecchiato un po’ anche io, perché ho difficoltà a trovare un egual valore in musicisti più giovani rispetto ai nomi che ho elencato. Non perché non ce ne siano, ma sicuramente perché non li conosco io. Ah, un altro dei miei idoli è John Scofield.

Parliamo del concerto di lunedì 8 maggio: come mai hai deciso di unire due gruppi che mi sembrano affini in un’idea di ricerca ma anche molto diversi tra loro?
È così. Il primo gruppo, Trio Sur, nasce dall’idea, mia e di Riccardo Fioravanti, di fare una riflessione sulla musica del sud del mondo. Non solo musica del sud America, come può venire in mente in un primo momento, ma del sud del mondo. D’altronde noi stessi facciamo parte del sud dell’Europa. Cerchiamo quindi un suono caldo: io suono la marimba, poi ci sono il contrabbasso e la fisarmonica, strumento che ha molto della musica folklorica. L’Aisha Quartet, invece, esiste da molti anni: nel 2003 già avevamo inciso un disco. Luca Gusella suonerà la marimba, io il vibrafono e Marco Decimo il violoncello. In passato a completare il gruppo c’era un percussionista, questa volta abbiamo voluto suonare con un batterista vero e proprio – Angelucci, batterista jazz bravissimo. In questo caso il dato più strutturale della musica, più compositivo e improvvisativo, risulterà essere più preponderante rispetto al primo gruppo. Eseguiremo composizioni fatte di parti più complesse dal punto di vista formale in cui anche l’improvvisazione viene inserita in una struttura formale molto più costruita. L’idea di questo gruppo ci piace molto perché è un quartetto con un violoncello che può fare sia da strumento melodico che da contrabbasso leggero, con un ruolo meno invadente dal punto di vista del registro rispetto a un contrabbasso. Ci piace molto il suono che produce questo quartetto, molto cameristico. Speriamo piaccia anche al pubblico.

Ultima domanda: pensi che un concerto possa cambiare la vita a una persona?
Assolutamente sì. Ma perché ciò avvenga deve essere una persona disposta a lasciarsi colpire, incantare, affascinare, incuriosire. Il messaggio che da anni, anzi da vent’anni ormai, cerchiamo di portare avanti con Sentieri selvaggi è proprio questo: siamo nati nella convinzione che le persone in grado di recepire la musica contemporanea siano molte di più di quanto gli organizzatori e lo stesso pubblico si aspettino. Non c’è bisogno di essere degli addetti ai lavori per amare e assaporare la musica contemporanea, c’è solo bisogno di provare, ascoltare, aver voglia di ritornare, dopo qualche tempo, sui brani che magari ci hanno lasciati interdetti e capire se è cambiato qualcosa. Nella Milano degli anni ’80 e ’90 avevo l’impressione che la musica contemporanea quasi si beasse di essere elitaria. Sbagliatissimo, e infatti questo ha generato la fine di molte stagioni che diventavano quasi autoreferenziali. Per noi non è mai stato così. All’inizio è stata dura, mi ricordo i concerti delle prime stagioni con una cinquantina di persone in sala. Adesso invece c’è gente che torna ai concerti, compra i dischi, si informa, scopre nuovi compositori: è importante perché si è innescato un meccanismo e si è seminato per qualcosa che si raccoglierà in futuro.