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Antonio Rovaldi

Da un progetto di due anni sui confini esterni di New York nasce un libro densissimo e stupefacente

Scritto da Lucia Tozzi il 28 agosto 2019
Aggiornato il 1 ottobre 2019

Luogo di residenza

Milano

Attività

Artista

Dal 2017 Antonio Rovaldi ha aperto in un cortile di via Padova uno studio diviso con Alessandro Costariol, Francesca Biagiotti e Andrea Camuffo. Lì è nato Cler, un progetto espositivo che ospita in maniera irregolare mostre che incrociano gli orizzonti di ricerca di Antonio. Stefano Graziani, Allegra Martin, Alessandra Spranzi, Farid Rahimi, Luigi Fiano, Paola De Pietri, Italo Zuffi, Ettore Favini, ZimmerFrei, Davide Savorani si sono alternati tra le sue mura, scegliendo e montando le loro opere attraverso un’intensità di dialogo che è raro trovare nei processi espositivi comuni.

L’ultima ricerca artistica di Antonio, iniziata più di due anni fa, è un’esplorazione dei confini di New York. Qui c’è il racconto di questo lavoro e di tutto quello che ne è scaturito fino a ora. Un processo che sta generando un libro e una mostra, ma che è lungi dall’essere concluso.

Qual è il titolo del libro che stai per pubblicare con Humboldt Books?

Il libro si intitola The Sound of The Woodpecker Bill. New York City. Io e Alessandro Costariol stiamo disegnando la copertina proprio in questi giorni: delle onde di colore verde acido che mi ricordano la fotografia del ’69 di Gino De Dominicis “Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade nell’acqua” . Anche nel nostro caso le onde restano circolari! Il libro sarà in inglese e Woodpecker suona come uno scioglilingua. Sono felice di lavorare ancora con Humboldt perché ci lascia molta libertà di scelta e con loro riesco a realizzare il libro che ho in testa – per me è importante perché questi progetti che coinvolgono autori diversi tra loro, richiedono molta energia. Questo libro racchiude non solo la mia ricerca degli ultimi tre anni intorno ai margini di New York, ma anche le numerose mappe disegnate da Francesca Benedetto che mi stanno affiancando in un viaggio a ritroso intorno alla città. Da questo ricco confronto con Francesca i contenuti del libro si sono come risvegliati da un lungo torpore – le immagini sedimentano nel tempo creando una geologia dello sguardo – e ora la città mi appare con un volto geologico, quasi primordiale. Lavorare con Francesca in questi mesi è stato davvero un regalo per me, ci intendiamo molto bene e entrambi stiamo in fissa con Alce Nero e le sue visioni sciamaniche di animali. Quando cammini a New York non puoi non pensare che stai toccando un suolo che era terra indiana e se socchiudi gli occhi vedi ancora il fumo dei loro fuochi, oltre il cemento e il vetro dei grattacieli. La storia di New York è una storia geologica, più che di segni umani.

Parlami della tua ricerca originaria, come mai hai deciso di esplorare fisicamente i confini di New York lungo tutto il perimetro?

Quest’idea è sicuramente figlia del mio progetto fotografico e performativo intorno al perimetro dell’Italia quando, nel 2011 avevo percorso tutto lo stivale per fotografare la linea dell’orizzonte, giorno dopo giorno per circa tre mesi di viaggio (Orizzonte in Italia, 2011/2015). Il progetto di indagine intorno alla città di New York ha le sue origini anche in una performance che realizzai nel 2009 con l’artista austriaco Michael Hoepfner, quando decidemmo di camminare la porzione della Broadway che entra dentro Manhattan, da Wall Street fino a Inwood Park, là dove l’isola finisce affacciandosi sull’Hudson River. Io e Michael avevamo camminato per otto ore di fila, lui senza vedere e io senza sentire e quando raggiungemmo Inwood Park – Shorakkopoch per i nativi – restammo seduti su un tronco in ascolto del suono del becco di un picchio, il cui eco si espandeva nel parco e quindi, idealmente, nell’intera città (Shorakkopoch, 2009).
Poi un giorno – era primavera del 2016 e abitavo ad Harlem con Francesca Berardi – ho deciso che era arrivato il momento di vedere un’altra città rispetto a quella che conoscevo, una città più lontana e meno iconica. Il primo titolo del libro infatti era Another City, ed è rimasto appoggiato al mio tavolo per diversi mesi, quasi fino alla fine del mio viaggio a piedi lungo il waterfront. A differenza di Orizzonte in Italia, in cui fotografavo sempre rivolgendomi verso l’orizzonte marino – quando non mi sfiancavo pedalando – questo nuovo libro guarda la città anche al suo interno ed è un continuo scavalcamento delle reti che delimitano le aree di verde che si affacciano sulle spiagge dell’oceano. Io quando fotografo mi devo stancare fisicamente, altrimenti la fotografia in sé mi annoia un po’.

E invece il libro come è costruito?

Il libro ha tantissime pagine con una carta molto sottile, ha un formato che può stare in uno zaino e non pesa. Ci sono molte fotografie in bianco e nero, in dialogo con le mappe e i disegni di Francesca, è suddiviso in cinque capitoli – quanti sono i boroughs della città – e poi ci sono dei racconti biografici degli autori che ho invitato e una mia lunga introduzione. Francesca Berardi racconta, attraverso la sua esperienza in un centro di raccolta di lattine e bottiglie a Brooklyn, una storia d’amore davvero pazzesca tra due canners messicani che si sono rincontrati dopo molti anni a New York mentre raccoglievano lattine e da quel giorno non si sono più lasciati. Claudia Durastanti ha scritto un racconto sulla città e il suono, forse figlio del suo ultimo romanzo La straniera, in parte ambientato a New York, dove Claudia è nata e ha vissuto fino a sette anni. Poi c’è un testo autobiografico di Steven Handel, amico e collega di Francesca Benedetto ad Harvard, che parla della sua vita quando era un bambino a Rockaway e i primi passi verso il mondo delle piante e dei semi, di cui lui è un esperto. Steven è un uomo meraviglioso ed è l’unico vero testimone newyorchese di questo libro. Io e Francesca siano molto contenti di averlo al nostro fianco in questo progetto condiviso, un po’ come se fosse una pianta molto antica e saggia e poi perché a me ricorda mio padre, che è un architetto paesaggista e come Steven ama collezionare e archiviare foglie e semi e ha la stessa barba che mi da tranquillità. La barba di chi ama e crede nelle piante.
Questo nuovo libro è possibile grazie al sostegno del premio Mibac – Periferie urbane / Italian Council e la GAMeC di Bergamo che mi sta seguendo nell’organizzazione di una mostra che farò insieme a Francesca Benedetto al dipartimento Graduate School of Design di Harvard a novembre e alla GAMeC a febbraio.