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Djing e performance tra persone-specchio, oasi amiche e musica per bambini interiori

Scritto da Giorgia Martini il 6 settembre 2023
Aggiornato il 26 settembre 2023

Suono ed estetica, passeggiare e sedersi su un prato, per Baptism, performer e dj, sono tutti strumenti per riappropriarsi dello spazio e rivendicare la propria presenza in esso. Concepisce la musica elettronica e il suo modo di farla, al contempo, come mezzo e fine, per portare in un altrove che rimanda all’infanzia, ma che in fondo si costituisce, esso stesso, come luogo per un’esperienza totalizzante.

«Quando muovo le manopoline sulle consolle e produco musica mi sembra di avere di nuovo sette anni, torno bambina.»

 

Come e dove è avvenuto il tuo incontro con Corvetto?

È stato un incontro casuale, da un affitto temporaneo è nata un’amicizia pluriennale, o forse è meglio dire un rapporto di amore e odio. Ho vissuto un paio d’anni negli alveari di piazza Gabrio Rosa, mi è sempre piaciuto chiamare così i tre grandi palazzoni che affacciano sulla piazza. Scale fino alla H, con decine e decine di appartamenti e centinaia di persone tutte inscatolate all’interno di queste imponenti costruzioni. Conosci tutti senza conoscere nessuno.

Perché amore e odio?

È un quartiere milanese e come da manuale si respira la libertà di esprimersi, di fare, di essere come si vuole. Una libertà che forse, in fondo, non è altro che l’altra faccia dell’indifferenza. Allo stesso tempo però, è un quartiere che ti costringe a stare all’erta, ad avere sempre pronta una via di fuga. Magari non ti senti costretto o ingabbiato per il fatto di essere come sei, ma ci sono vie che sanno farti sentire ingabbiato per il fatto stesso di essere, di esserci e passare di lì in quel momento.

E come hai fatto a liberarti dalla gabbia della paura?

Ho trovato le mie oasi, un po’ per caso, rifugiandomi nei posti giusti quando serviva. Ho conosciuto così per esempio il forno musulmano dietro casa, sono entrato per necessità, senza nemmeno sapere dove fossi e alla fine ho scoperto un luogo e persone amiche. Poi ci sono le case di amiche e amici, i campanelli sparsi nel quartiere, ai quali sai di poter sempre suonare: oasi pensili, perché sono tutti appartamenti ai piani alti, dai quali puoi guardare giù, riprenderti il controllo del quartiere e silenziare la paura.

Sguardo queer su Corvetto, come vedi il quartiere?

Io non ho la macchina, quindi giro sempre a piedi, in bicicletta o con i mezzi e questo mi ha permesso di conoscere tanta gente e vivere situazioni diverse, positive e negative. Mi è capitato più volte, magari sulla 93, di incontrare persone specchio, è così che mi piace definire altre persone queer, nelle quali mi rivedo e alle quali mi viene spontaneo tendere la mano per fare rete. Per me essere queer a Corvetto ha significato dovermi riconquistare quasi quotidianamente la fiducia delle persone, dal barista al fornaio, mi sono sforzata e ho faticato per farmi riconoscere, per combattere la diffidenza, ma soprattutto l’arroganza di chi pretende di poter scartare l’esistenza di qualcun altro perché distante dalla propria.

Com’è il tuo rapporto con il quartiere inteso come spazio fisico?

Entrare in rapporto con lo spazio per me è un atto politico. Penso alla performance art e al lavoro di Orlan, che ha usato il proprio corpo come unità di misura per indagare il contesto urbano. Ecco io credo che per una persona queer, fare esperienza dello spazio sia un modo per rivendicare il diritto suo e di ogni altra di essere ciò che è su una strada che è di tutte. Passeggiando per il quartiere io manifesto la mia presenza, mi approprio dello spazio e costringo chi mi passa accanto a riconoscermi.

Questo modo di vivere lo spazio influenza il rapporto col tuo lavoro, con la musica?

Sì molto. La maggior parte delle volte suono lontano da casa, ma scelgo comunque di spostarmi con i mezzi. Uscire vestita da serata, magari truccata e con le platform ai piedi, la consolle sulle spalle, lo zaino e tutti i miei strumenti, da un lato mi fa vivere più intensamente il rapporto con la musica, ne porto fisicamente il peso, e dall’altro è come se in questo modo io dichiarassi ad alta voce il mio essere queer e che il mio lavoro è fare musica elettronica, due cose senz’altro ancora difficili da accettare.

Tu vieni da un paesino nelle Marche, c’è qualcosa della provincia che hai ritrovato a Corvetto?

Io credo che ci sia una dimensione quotidiana molto simile. Le dinamiche di quartiere non sono tanto diverse da quelle stereotipicamente paesane, con tutti i lati belli e brutti. Per questo però sono convinta che il paesino in cui sono nata, così come Corvetto, siano i luoghi ideali da cui partire per scardinare convinzioni radicate nella mente di chi in fondo spesso semplicemente non sa, non conosce. Il fatto stesso di aspettare i mezzi pubblici, salire sul tram, dare modo alle persone di osservarmi e prendere atto del fatto che io esisto, è già parte di una battaglia, che conduco qui, ma che ho iniziato nelle Marche e che so aver dato frutti, essere stata nel suo piccolo un esempio e un conforto per altre. Anche se per me il punto non è affatto chiedere a tutte le persone queer di scendere per strada, sono consapevole della fatica che comporta e anche del fatto che non a tutti possa interessare o possano sentire questa urgenza. È il modo in cui io sento di dover rivendicare come sono, il mio modo per affrontare il pregiudizio. Una fatica che tante volte non porta a nulla, ma nonostante ciò uno sforzo che continuo a voler fare, per me e per chi come me può averne bisogno.

Musica ed estetica, come dialogano nella tua performance?

Direi che più che un dialogo sono voci che cantano all’unisono. Quando io suono, entro in una dimensione altra, dove sono completamente a mio agio, ma questo è possibile anche grazie a platform, accessori e trucco intenso. Soltanto così posso sentirmi pienamente dentro quello che sto facendo. Non potrei fare musica allo stesso modo, se fossi costretta a presentarmi in tuta. Suonare per me è un’esperienza totalizzante, sinestetica, nella quale spero di riuscire a portare anche chi, in quel momento, sta ballando sotto la consolle.

La tua estetica rimanda ad un immaginario molto infantile, come mai?

Per me suonare significa tornare ad uno stato di benessere, serenità e appagamento che associo all’infanzia. Quando muovo le manopoline sulle consolle e produco musica mi sembra di avere di nuovo sette anni, torno bambina. Poi in generale il mio percorso artistico è lastricato di reference e quello che vorrei riuscire a fare è proprio, attraverso suoni e brani del passato, offrire alle persone chiavi sonore per sbloccare ricordi di quando erano bambini. Anche l’utilizzo delle parole è funzionale a questa riscoperta, le parole sono scelte per la loro capacità evocativa, sonora e semantica.

Quali sono i tuoi luoghi del quartiere?

Sono molto legata al parco Cassinis, tante volte ci è capitato di improvvisare lì feste informali con un collettivo, Spite, che ho fondato con altre ragazze, e Nikita W, con la quale lavoro spesso, ci ha registrato parte di un nostro pezzo, Inside. Ha scelto quel parco perché le serviva un luogo aperto, dove poter urlare a squarciagola. Però devo dire che sono una grande amante dei luoghi non istituzionalizzati, quelli più inaspettati, i quadrati verdi incastrati fra palazzine e incroci stradali. Mi è sempre piaciuto sedermi lì, osservare quello che ho intorno e spesso prendere appunti, scrivere pezzi, fare ricerca musicale. Ho scoperto così tanti posti, il bisogno di stare all’aria aperta per lavorare, mi ha dato modo di attraversare il quartiere in lungo e in largo.

Corvetto ha una storia e un presente di proteste, occupazioni e sgomberi, credi che il tuo genere musicale possa essere un manifesto per i movimenti di protesta?

Sono convinta che il fatto stesso di performare davanti ad un pubblico implichi già una presa di posizione e quindi ha tutto il potenziale per costituirsi come grido di protesta. Nei miei djset, non solo quando metto i miei pezzi, ma quando scelgo quelli degli altri, faccio una dichiarazione di intenti. Molto spesso tante delle persone che vengono alle mie serate sono queer, si incontrano, trovano persone specchio, ballano sotto cassa e quella cassa diventa un simbolo ancestrale, un totem che testimonia una battaglia comune, condivisa da chi in quel momento si trova lì a gridare lo stesso desiderio di essere riconosciuta, ma anche da altre che lì non ci sono, ma che ci saranno domani e che erediteranno la stessa lotta.