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Blak Saagan

L'ultima reincarnazione artistica di Samuele Gottardello, in fuga dalle gabbie del Nordest tra cosmologia, anni di piombo e ricordi punk

Scritto da Tommaso Zanini il 16 dicembre 2021

Foto di Carlo Cimmino

Attività

Musicista

Blak Saagan è il progetto solista di Samuele Gottardello, polistrumentista, produttore discografico e regista video. Attivo nella scena indipendente italiana da più di vent’anni con diversi moniker e progetti, questa sua ultima incarnazione nasce come omaggio al cosmologo Carl Saagan, e “Se Ci Fosse La Luce Sarebbe Bellissimo” è il suo secondo album realizzato con questo alias e prodotto dall’etichetta bolognese Maple Death Records. Il titolo è mutuato da un’espressione utilizzata da Aldo Moro in una delle sue ultime lettere alla moglie, inviate dalla prigionia durante il sequestro delle Brigate Rosse. Incontriamo Sam alla vigilia del suo concerto in programma al Teatro del Parco Bissuola di Mestre, venerdì 17 dicembre 2021. Sia il teatro e che il parco sono ​​dedicati alla memoria del commissario di Polizia Alfredo Albanese, ucciso dalle Brigate Rosse nel 1980 mentre stava indagando sull’omicidio di Sergio Gori, vicedirettore della Montedison di Porto Marghera. La coincidenza tra questi due accadimenti ha alimentato la nostra conversazione, portandoci a riflettere su quel periodo storico e quelle vicende.

Ciao Samuele, raccontaci com’è nato questo disco.
«Subisco da sempre la fascinazione per gli anni’70 e sono molto influenzato dalle immagini, i suoni, le vicende e l’estetica di quegli anni. Nel mio approccio è essenziale individuare un concept a partire da cui sviluppare delle musiche, una colonna sonora per accompagnare un film immaginario, interiore. Mi interessa raccontare e narrare le storie che mi appassionano a partire dai molti documentari e libri che leggo, e come nel caso di Carl Sagan e dell’esplorazione del cosmo, la vicenda del “Caso Moro” rappresenta l’apice, il climax degli “Anni di piombo”, un periodo storico pieno di incognite e punti oscuri, mai del tutto illuminati».

…e “se ci fosse la luce sarebbe bellissimo”, no?
«Esatto! Ci tengo però a precisare che la mia narrazione del Caso Moro non è un saggio storico, ma è un’interpretazione molto personale di quelle vicende: mentre esploravo la cronaca degli “anni di piombo” in Italia, il lessico utilizzato dai giornali o dai comunicati delle Brigate Rosse suggeriva alla mia mente delle immagini e delle emozioni, quasi a prefigurare delle sequenze cinematografiche. I titoli delle tracce in parte ripercorrono questo percorso di studio e suggestione, a volte riferendosi a fatti o documenti storici – come nel caso del titolo dell’album o di “Ore 9: Attacco Al Cuore Dello Stato” – altre volte invece riprendendo i nomi, i luoghi o ciò che emerse dalle indagini giornalistiche che negli anni si susseguirono ( Scuola Hyperion o “E Lo Spettro Disse “Gradoli”). La trasposizione musicale mi permette di astrarre dal contesto per presentare queste vicende come se fossero dei “noir”, raccontando gli intrighi di queste vicende oscure attraverso i suoni».

Blak Saagan dal vivo – foto di Carlo Cimmino

Come si traduce tutto questo in uno spettacolo live?
«Il mio set è articolato ma essenziale: sono presenti tutti gli strumenti con cui ho registrato il disco (organo, moog, campionatori, pedaliere e sintetizzatori d’epoca) ma non mi interessa salire su un palco per eseguire fedelmente un brano dopo l’altro, seguendo un copione o uno spartito prestabilito. Fondamentalmente, sono influenzato dall’elettronica, dall’ambient, e la musica che faccio è psichedelica perché questo approccio libera spazio all’improvvisazione live. Dal vivo infatti preferisco adottare un approccio aperto derivato appunto dallo stile degli anni ‘70, in cui le tracce sono un canovaccio a partire da cui lavorare sulle suggestioni strumentali che accadono in quel momento.

Blak Saagan dal vivo – foto di Carlo Cimmino

Utilizzi anche video proiezioni?
«Oltre alla componente sonora è presente anche un’installazione video, realizzata attraverso 2 proiettori non sincronizzati; le immagini che scorrono sono state prese dalle fotografie presenti negli almanacchi giornalistici dell’epoca, che i miei genitori collezionavano. Ho successivamente rielaborato queste immagini, filmandole con una videocamera su cui avevo montato delle lenti macro che mi permettevano di avvicinarmi tantissimo alla fotografia: il risultato visivo non consente di vedere l’interezza dell’immagine o della figura ma fa emergere il retino tipografico e la trama della carta, creando delle macchie di luce e oscurità che accompagnano la musica e lo spettatore durante il concerto senza però che vi sia un rapporto didascalico tra suono e immagini. Credo infatti che la mia musica sia fruibile con la massima libertà dell’ascoltatore e il mio obiettivo artistico è permettere dei momenti di trasporto e viaggio, perché è una colonna sonora interiore, personale. La mia musica non vive però esclusivamente insieme a quelle precise immagini o a questa storia, ma nasce e trova una forma a partire da questa, l’ascoltatore è libero di adattarla soggettivamente al suo viaggio interiore».

Blak Saagan dal vivo – foto di Carlo Cimmino

Quali sono i documentari o i libri che più ti hanno influenzato in questo percorso, e quali raccomanderesti a chi volesse approfondire l’argomento?
«Sicuramente partirei dal ciclo di documentari di Sergio Zavoli “La notte della Repubblica”, trasmessi negli anni ‘90 e disponibili direttamente dagli archivi della Rai. È una trasmissione densa e le interviste ai protagonisti dell’epoca sono estremamente profonde, grazie soprattutto alla grande sensibilità umana e professionalità di Zavoli, un giornalista esemplare. Invece “Il Caso Moro” di Giuseppe Ferrara con Gian Maria Volontè è un film straordinario, e ricostruisce la vicenda del rapimento secondo le fonti giudiziarie ufficiali, prescindendo perciò dai numerosi aspetti e lati oscuri che successivamente sono state indagate e confermate. Un altro documentario che mi sento di consigliare è “il Sole dell’Avvenire”, un piccolo documentario semi sconosciuto sui brigatisti che ritornano sui luoghi che avevano frequentato nel momento della fondazione dell’organizzazione terroristica».

Un fotogramma dal film “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara.

«Credo sia sbagliato pensare ai brigatisti esclusivamente come a dei “mostri assetati di sangue”, o a delle persone “malvagie”; erano invece delle persone che avevano seguito un percorso di formazione politica e sociale tipica degli anni ‘70; non dico questo per sminuire l’entità dei loro crimini e giustificare le loro azioni, che non erano solo responsabilità della società e della politica. Sono delle persone che hanno fatto delle scelte soggettive, individuali, libere, che si sono poi estremizzate, radicalizzate, un processo che noi oggi – ahimè – conosciamo bene, no?»

   Purtroppo sì.
«Ciò che mi ha colpito molto di questo documentario è che restituisce una visione dell’essere umano – in questo caso i brigatisti – nel momento in cui si trovano a dover fare delle scelte: loro hanno fatto questa scelta tragica e il documentario, riportandoli nei luoghi in cui sono accadute, li obbliga a riesaminarle, parlando quindi della crisi di una persona. Personalmente ritengo che questo elemento – la crisi, il momento della scelta – sia un elemento interessante per chi si occupa di storie, di narrazione. Tra i libri che invece suggerisco il volume di Giovanni Fasanella “Cosa sono le Br” in cui intervista Alberto Franceschini; “Morte di un Presidente” di Paolo Cucchiarelli; “Patto di omertà” di Sergio Flamigli».

Samuele Gottardello ed Enrico Stocco (Pido) insieme negli Hormonas

Passiamo dal passato, al presente; tu che negli anni hai frequentato Mestre e attraversato con il tuo percorso musicale diverse stagioni, com’era e cosa vedi oggi?
«Mestre è strana, soprattutto se la attraversi venendo da un’altra città veneta. Forse è stata vittima di un processo che l’ha “svuotata”, un po’ come Marghera, e si trova oggi ad essere senza più una funzione: né dormitorio in funzione di Venezia, né grande centro urbano moderno che sviluppa una vita in funzione dei suoi abitanti. Io vengo dalla provincia di Padova e ho conosciuto la scena mestrina alla fine degli ‘90 anche grazie a una cassetta autoprodotta chiamata “Musica Aliena”, una compilation garage/surf/punk avanguardistica, che raccoglieva le registrazioni DIY di tanti progetti che all’epoca esistevano tra la sala prove Monteverdi e via Manin, dove abitava Pido (Enrico Stocco)».

Molto underground. Com’era questa scena?
«C’era un entusiasmo enorme e un’attitudine incredibile, la città era piena di persone giovani con delle idee forti e si respirava un sentimento di libertà culturale unico. L’ambiente era per me incredibilmente stimolante dal punto di vista artistico, e spesso incontravo questi ragazzi e ragazze con cui ci scambiavamo e discutevamo di tutto: dischi, libri, fumetti, John Carpenter, i b-movies, gli strumenti. Era un momento incredibile per la musica e si sentiva aria di comunità; c’erano persone come Pido, Davide Zolli e Marco Rapisarda e tantissimi altri e altre, tutti con una grandissima volontà di produzione artistica, e nuovi progetti nascevano e morivano in continuazione».

Gli Hormonas

E oggi?
«Oggi chiaramente sono cambiate molte cose, alcuni di quei protagonisti abitano altrove e per fortuna i loro progetti continuano. Io – pur abitando e lavorando qui – sono più spesso a Bologna, dove trovo un fermento culturale che è chiaramente più legato ai miei gusti e ai miei interessi attuali. A Mestre per fortuna alcune realtà continuano ad esistere e a insistere nel voler lavorare culturalmente in questa porzione di territorio, come nel caso di Alberto Stevanato e di Solenn Le Marchand (Grimoon) che attraverso la loro etichetta Macaco Records invitano e collaborano con molti altri soggetti per realizzare rassegne come quella a cui mi esibirò venerdì».