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Modou Gueye: con il C.I.Q. «oso inventare l’avvenire»

Al Centro Internazionale di Quartiere si fa la guardia perché la porta resti sempre aperta

Scritto da Giorgia Martini il 8 settembre 2023
Aggiornato il 20 settembre 2023

Mentre parliamo con Modou, ideatore del C.I.Q., si sente profumo di cibo. Dalla finestra che dà sulla cucina si vedono pentole che sembrano cuocere colore, tanto brillano. Siamo seduti nei tavoli della sala principale, che affaccia sul Giardino della Meraviglie e sulla sala concerti. Il C.I.Q, faticosamente costruito nel corso degli anni, è internazionale sì, ma anche ben radicato nella città e nel luogo in cui ora sorge, via Fabio Massimo, una delle zone di Corvetto con più storie da raccontare.

 «L’idea alla base è quella di partire di qui per andare oltre, cerchiamo di coinvolgere persone da ogni dove.»

 

Come ti è venuta l’idea del C.I.Q.?

Tutto è iniziato quando stavamo alla Fabbrica del Vapore, insieme all’associazione Maschere Nere, lì svolgevamo soprattutto laboratori teatrali e organizzavamo iniziative culturali, principalmente mostre, di cui diverse curate dalle ragazze e dai ragazzi dell’Accademia di Brera. Il nostro percorso è stato molto travagliato, spesso ostacolato dalla complessità della burocrazia italiana, ma anche dall’ottusità e dal disinteresse di chi molte volte occupa le scrivanie comunali e regionali. Da sempre cerchiamo di dare spazio ad ogni espressione artistica, soprattutto emergente. Sapevo che spazi come questo servivano, ne ho avuto la conferma quando ho partecipato ad uno degli appuntamenti del GAI, L’associazione per i Giovani Artisti Italiani, e mi sono accorto che mentre parlavamo d’arte, di giovani, di cultura, con ministri e assessori, il relatore più giovane ero io, che oggi ho 53 anni e all’epoca ne avevo già più di 40.

Come si inserisce il C.I.Q. in questo contesto culturale?

Il problema è che ad oggi per poter rispondere alla domanda “Che lavoro fai?”, “Faccio l’artista” devi già vendere opere da centinaia di migliaia di euro. Il C.I.Q. è un luogo per tutti coloro che vogliono fare arte a prescindere dal valore che le loro opere hanno sul mercato. È uno spazio per quelle espressioni artistiche che l’opinione e l’amministrazione pubblica spesso non considerano tali, come ad esempio la musica elettronica. Anche per questo motivo abbiamo costruito, letteralmente con le nostre mani, una struttura flessibile, con aree polifunzionali, capaci di trasformarsi e adattarsi alle esigenze di chi viene a trovarci. 

Quando si parla di intercultura, integrazione, multietnicità spesso si parte, più o meno consapevolmente, dal presupposto che ci sia un diverso che deve essere incluso, mentre tu parli più spesso di interazione, cosa intendi?

Per me fare intercultura significa anche semplicemente accettare che qui dentro si tengano più eventi la stessa sera, concerti di generi molto diversi fra loro, che apparentemente non hanno nulla da dirsi, ma che qui possono trovare spazio sotto lo stesso tetto e poi chissà. In generale organizziamo laboratori per bambini, serate di musica afrobeat, ma affittiamo anche lo spazio per riunioni condominiali, passiamo dalla cucina pugliese a quella senegalese, dai matrimoni albanesi a quelli nigeriani. Al C.I.Q. c’è spazio per chiunque abbia un progetto con dei contenuti e un modo di guardare le cose compatibile con noi. Persino la birra qui è democratica, trovate quella artigianale, come quella industriale, per noi l’importante è coinvolgere più persone possibile, questo non vuole essere un luogo di bandiera.

Come sono i rapporti di vicinato?

Con i vicini non è sempre facile, spesso c’è qualcuno che si lamenta, come accade in tante case, anche se tutte le nostre attività sono sempre in regola. Poi ci sono un paio di persone che hanno messo gli occhi sul nostro spazio e cercano di portarcelo via, mettendoci i bastoni fra le ruote, ma noi qui abbiamo la concessione fino al 2031 e non abbiamo intenzione di spostarci prima di allora, se non per nostra volontà. In generale questo è un posto frequentato dalle persone del quartiere ma non solo. Il senso del nostro nome è proprio questo, l’idea alla base è quella di partire di qui per andare oltre, cerchiamo di coinvolgere persone da ogni dove, anche se a volte è difficile persino attrarre i milanesi, in senso lato, perché non siamo sulle vie principali, di qui non ci passi, devi volerci venire. Ma in fondo anche questo rende il CIQ un luogo con un’anima e non l’equivalente di qualunque altro posto.

E con le altre associazioni riuscite a collaborare?

Anche il rapporto con le altre associazioni è complesso, sì: ci è capitato di essere chiamati da altre realtà, in Italia e all’estero. Il punto però è che in linea teorica si parte sempre dal presupposto che l’anima delle iniziative del terzo settore debba essere la rete, ma poi subentra la vanità. Siamo tutti così pieni di noi stessi, da volerci sempre al primo posto, anche a discapito delle belle collaborazioni che potrebbero nascere se effettivamente ci si mettesse a servizio delle cause per cui si lavora. Ma credo che questo dipenda anche da una sorta di difetto congenito di cui spesso soffre il terzo settore, soprattutto quando si tratta di grandi enti: il fatto è che l’aiuto dovrebbe aiutare a distruggere l’aiuto, il fine ultimo di chi si adopera per gli altri, dovrebbe essere far sì che gli altri non abbiano più bisogno del suo aiuto. Invece siccome anche il terzo settore in fin dei conti è un settore dell’economia, diventa un business e chi ci sta dietro non contempla la possibilità che la propria attività possa divenire superflua.

Possiamo venire al CIQ in qualunque momento?

Teoricamente sì, di fatto le porte sono sempre aperte, anche se purtroppo per il momento non riusciamo a garantire il servizio bar e ristorazione se non c’è un evento in corso. Ma a breve mi piacerebbe molto trovare un gruppo di giovani che abbiano voglia di prendere in gestione questa parte. Vogliamo continuare a costruire possibilità di relazione, a nutrire il tessuto sociale, facendoci sempre di più promotori di quell’interazione di cui vi parlavo prima. Il bar, per come noi lo intendiamo, è un luogo che ti lega al posto dove vivi e che permette a chi non è di qui di non essere un semplice passante, ma di incontrare l’altro.