Uno degli elementi che rendono Milano una città viva è il fatto che continuano ad aprire nuovi spazi culturali, istituzionali e indipendenti: MEGA, insieme a FM Centro per l’Arte Contemporanea ai Frigoriferi Milanesi, è stato la novità di MiArt. Inaugurato a Piazza Vetra da Delfino Sisto Legnani, Giovanna Silva e Davide Giannella appunto. Davide è un curatore indipendente molto conosciuto sulla scena milanese per il suo lavoro sempre sul confine delle arti: tra arte e video, soprattutto, che è quello che insegna alla NABA ed è stato l’oggetto di una mostra al PAC nell’autunno del 2014, GLITCH. Interferenze tra arte e cinema. Ma anche tra cucina e arte, come le cene cannibali che organizza a casa sua invitando un artista a cucinare, intitolate Dahmers Dinner, o tra arte e editoria, come nel lavoro che fa per RAW RAW Edizioni. E ora inaugura una collaborazione con il cinema Beltrade, LIMBO. Luoghi tra arte e cinema, proiettando a Milano per la prima volta il film Negus di Invernomuto. «Con Limbo sto provando a portare i film d’artista nei cinema comuni, nel tentativo di ampliare la visibilità e conseguentemente il pubblico di questo genere di produzioni e opere. Una cosa molto interessante della collaborazione con il Beltrade è che i film come Negus siano messi in programmazione per diversi giorni e che possano quindi essere percepiti e visti anche da un pubblico più ampio ed eterogeneo di quello legato all’arte o al circuito dei festival. In ultimo questa esperienza può dare il via ad una modalità distributiva alternativa, per ora ultralocale ma che ha le potenzialità per estendersi anche altrove. Ai titoli definitivi della rassegna sto lavorando in questi giorni, possiamo però dire che da settembre la rassegna avrà una cadenza mensile e che i film rimarranno poi in cartellone per almeno dieci giorni».
Davide, sei stato tu a dare un’impronta così sperimentale al processo della mostra inaugurale di MEGA, con Diego Perrone e Andrea Sala per la prima volta insieme?
I primi a dare un certo taglio ad UNGHIA, per le tecniche utilizzate e per il fatto che si tratta di lavori a quattro mani, sono stati senza dubbio Diego e Andrea. Hanno lavorato al progetto per un anno, provando e riprovando per arrivare ad un risultato che reputassero soddisfacente. Si sono messi continuamente in discussione e questo approccio è stato il presupposto migliore per dare poi forma definitiva alla mostra e per sottolineare quelli che sono gli intenti di MEGA. È nostro interesse sviluppare progetti che diano – sia a chi è dentro a MEGA sia a chi collabora con noi come accaduto in questo caso con Nicola – la possibilità di rivedere le proprie abitudini produttive, investire in qualcosa di meno certo o sicuro del solito.
A Milano hanno aperto negli ultimi anni moltissimi spazi indipendenti. Perché, secondo te? E come si colloca MEGA in questo panorama?
In generale credo che gli spazi indipendenti nascano con l’intenzione di produrre contenuti in maniera più spontanea e immediata rispetto a quelle che potrebbero essere le condizioni all’interno di una galleria o di un’istituzione. Queste hanno giustamente ed inevitabilmente una serie di parametri da rispettare anche in base al proprio ruolo e alla propria storia. Poi ogni spazio ha un taglio differente. MEGA è composto da un fotografo d’arte e architettura, da una fotografa che poi è diventata anche editrice di libri d’arte e da me, che da sempre cerco di relazionare la ricerca artistica con altri ambiti del panorama contemporaneo. In tutto questo cercheremo di far collimare gli aspetti comuni e le differenze tra noi e gli artisti o con le persone che coinvolgeremo di volta in volta nei progetti. Il nostro obiettivo principale è quello di di dare spazio a progetti di difficile collocazione. Poi di fatto considererei questo genere di spazi – per quanto si possano definire indipendenti – comunque parte del sistema.
Quali sono i tuoi preferiti tra gli altri?
Tra i i miei preferiti direi sicuramente Fanta Spazio per la location incredibile e per come sono riusciti a creare un terreno comune con il quartiere circostante. Le feste che organizzano vicino mercato rionale mi sembrano un’ottima idea. Le Dictateur, per le bellissime pubblicazioni legate ad ogni mostra e per il senso di comunità che sono riusciti a creare in questi dieci anni. Gasconade per il ruolo che ha avuto nel dare visibilità a molti artisti locali e per il fatto che, nonostante non esista più come luogo fisico, continua a produrre contenuti in forme differenti.
Peep Hole per il rigore espositivo e la capacità di relazionarsi anche con realtà istituzionali. Armada per l’attenzione che rivolge alle scene più giovani, nazionali e internazionali.
Che cosa ti interessa di più del curare?
In generale credo che ci siano varie maniere di intendere la curatela e che molto dipenda anche dalle caratteristiche umane di chiunque abbia la voglia di fare questo tipo di lavoro. C’è chi è più portato alla conservazione o alla ricerca, chi è più forte sul piano manageriale o della produzione, chi cerca di dare un taglio autoriale più netto chi invece preferisce essere più sfumato nel proprio intervento e così via. Di fondo la curatela, per come la intendiamo oggi, è una pratica piuttosto recente e in continua evoluzione. Per me il movente principale è la possibilità di sviluppare dei progetti assieme agli artisti, cosa che, costringendoti a rimodulare il tuo approccio ogni volta, ti permette anche di imparare moltissimo da questi incontri. Lo vedo come un investimento reciproco, un lavoro parallelo tra te e l’artista nella produzione, amplificazione e diffusione di contenuti. Questo forse è anche il motivo per cui preferisco evitare di definirmi critico. Al di là delle inevitabili opinioni personali, non amo l’idea di arrivare ad esprimere pubblicamente o per iscritto giudizi sul lavoro di un artista o di un collega a cose fatte, a posteriori. Ci sono critici seri che stimo molto e che svolgono un lavoro fondamentale di lettura, interpretazione e divulgazione, personalmente però preferisco mantenere distinte la critica dalla curatela. Sono più portato alla partecipazione che alla contemplazione.
Perché consideri la pratica curatoriale equivalente alla produzione di un libro?
A un libro, a una conferenza, a un film, a una performance…le equivalenze sono molteplici. Perché comunque, almeno dal mio punto di vista, cerco sempre di condensare dei contenuti e di renderli nella maniera migliore ad uno o più pubblici di riferimento. Le dinamiche progettuali sono sempre le stesse e le storie da raccontare sono infinite come le modalità di narrazione di quelle stesse storie. Credo sia un peccato oggi ragionare ancora per generi o ambienti distinti. Mi piace invece la teoria dei vasi comunicanti.
Mi parli delle cene cannibali che organizzi a casa tua? come funzionano?
Le Dahmers Dinner sono nate ormai quattro anni fa, principalmente dalla mia passione per la cucina, intesa anche come momento di scambio di idee e valori, un territorio in cui è più facile svelarsi e conoscersi in maniera immediata. Il tema del cannibalismo nasce invece dalla necessità di sintetizzare tutta una serie di riflessioni e condividerle con i partecipanti: il cannibalismo da una parte è l’ultimo tabù condiviso universalmente in ogni cultura, una pratica resa ammissibile solo in momenti di estrema carestia o emergenza, dall’altra – nel linguaggio corrente – è un termine utilizzato per indicare il recupero, da un organismo morente, di elementi utili che se riassemblati posso generare qualcosa di virtuoso.
La cena prende in considerazione entrambe le accezioni. Di quella negativa recupera l’aspetto fisico del cibarsi e l’aspetto contestuale relativo alla carestia culturale ed economica che stiamo vivendo. Della sfumatura positiva recupera invece l’idea di mettere insieme attorno ad un tavolo persone che possano creare un terreno comune attraverso la condivisione di idee e visioni in vari ambiti. Nella pratica funziona più o meno così: si invita un artista amante del cibo, io faccio la spesa e cucino con lui tutto il giorno in vista della cena e nel frattempo ci confrontiamo parlando appunto di gusti nel cibo e nel proprio lavoro. Una sorta di studio visit informale. L’artista porta sempre con se un’opera o un feticcio che verrà esposto e rimarrà in cucina da me. Durante la cena, pensata di solito per un massimo di quindici persone, ci si ‘’cannibalizza’’ vicendevolmente, e si cerca di assimilare il meglio da ognuno. Tutti i pasti sono poi documentati da un fotografo di volta in volta differente. Le grafiche dei menù che vengono spediti agli invitati qualche giorno prima sono ad opera di Tommaso Garner, eterno compagno di libagioni. L’obbiettivo finale è che tutti questi materiali confluiscano in un libro di ricette cannibali.
Com’è andata con Trevisani, la Silva e Ricuperati quando vi siete trovati di fronte al rinoceronte bianco? qual è il tuo ruolo in questa storia?
È andata molto bene direi. Credo che Luca ci abbia coinvolti in questa spedizione un po’ bizzarra per avere dei riscontri in tempo reale e per poter utilizzare sin da subito punti di vista e riflessioni differenti su quella situazione. Gli incontri con il rinoceronte avvenivano sempre molto presto, di solito all’alba, per poter sfruttare un tipo di luce più adatta e funzionale alla resa video che Luca stava cercando. Sinceramente non sono mai stato particolarmente sensibile alle vicende animali, però in questa occasione, attraverso la storia di Sudan, l’ultimo rinoceronte bianco del nord ancora in vita, ho un po’ riconsiderato questo atteggiamento. Quantomeno devo riconoscere che ci ha dato modo di innescare delle riflessioni, a mio parere utili, sul rapporto tra natura e cultura, una questione estendibile a molti aspetti del nostro quotidiano. Ora che siamo rientrati, ognuno di noi darà continuità al progetto rispetto alle proprie competenze più specifiche. Il mio ruolo sarà quello di lavorare ad una mostra che possa restituire al meglio questa vicenda.
Ti piace insegnare? Come prepari le tue lezioni?
Mi piace molto si. L’insegnamento, un po’ come questa intervista, permette di fare mente locale sui propri interessi e il proprio lavoro, su quanto è stato fatto e su quello a cui si aspira. Dovendo poi rivolgersi ad altri, si è costretti a un esercizio di riordino mentale molto utile. In più, insegnare ti permette anche di assorbire stimoli nuovi da chi ti sta davanti.
Veniamo al tuo specifico, anche se negherai di averne uno: video e arte. Quali sono le tue critiche al sistema festival?
Senza dubbio quello delle relazioni tra cinema, immagini in movimento e arte è uno degli ambiti che mi appassiona e sul quale mi sono trovato a lavorare maggiormente. Probabilmente è diventata una delle mie specifiche come dici tu ma credo che tutto nasca dal mio interesse per i territori liminali. Mi piace avere la possibilità di inoltrarmi in aree non del tutto definite e partecipare al loro sviluppo più che ad una loro reale definizione. Per quanto riguarda i festival l’aspetto critico principale è rappresentato dalle logiche delle premières, secondo le quali un film non dovrebbe essere selezionato se ha già partecipato ad altri festival. È comprensibile con delle produzioni tradizionali, molto meno nel caso dell’art cinema, che a mio parere ha soprattutto bisogno di essere promosso ad oggi.
Cosa si può fare per migliorare la fruizione delle opere video? e tu nello specifico che piani hai?
È piuttosto difficile dare una risposta univoca. Sicuramente credo che sia un presupposto chiave quello di restituire un’opera filmica secondo gli standard tecnici e formali che gli artisti si sono prefissati. Chiaramente se è stato fatto un film in full hd con dei suoni pensati per uscire in dolby 5.1 presentare il lavoro con un proiettore da ufficio e utilizzare come sistema audio le casse del pc, rischia di mortificare un lavoro durato mesi e quindi, probabilmente, la cosa migliore potrebbe essere quella di appoggiarsi ad un cinema per le proiezioni. Ma appunto dipende sempre dal genere di lavoro e dalla maniera più opportuna per veicolarlo e dagli accordi presi con gli autori. Al di là delle caratteristiche dei singoli lavori, mi piacerebbe riuscire a vedere le produzioni d’artista anche al di fuori dei circuiti festivalieri o museali. Sarebbe un grande risultato – anche per testarne le reali potenzialità – vedere certi film nel programma dei cinema comuni, quelli che si rivolgono a dei pubblici diversificati e trasversali. Quella della distribuzione/diffusione rimane di fatto una questione aperta che in qualche modo vorrei affrontare.
Quali sono i canali migliori a Milano secondo te per la fruizione dell’arte video e multi media?
Rispetto a quanto testato personalmente, tra i cinema di Milano direi il Beltrade che mette a disposizione la giusta tecnologia e una programmazione diversificata e di qualità, così come l’Ariosto e l’Anteo. Gallerie, musei o spazi indipendenti possono essere luoghi altrettanto validi ovviamente. Un altro luogo molto interessante è anche il CRT Teatro dell’Arte annesso alla Triennale, che può essere adattato a sala cinema creando una situazione piuttosto suggestiva vista la continuità con l’istituzione.
Come andò la mostra al PAC, se dovessi fare un bilancio? quanto ci hai lavorato? è venuta molta gente?
Se è difficile giudicare il lavoro altrui figuriamoci il proprio. Poi tendenzialmente sono piuttosto autocritico e mai soddisfatto al cento per cento. Al di là di queste mie derive posso comunque dire di essere stato molto contento dell’esperienza al PAC. Massimo (Torrigiani, ndr) mi ha dato sostanzialmente carta bianca e ha sostenuto sin da subito il mio approccio. Per un curatore indipendente, lavorare con un’istituzione credo sia sempre piuttosto stimolante perché aiuta a rivedere e riadattare la propria prassi ad un contesto che prende in considerazione parametri ai quali magari non si è abituati. Altrettanto può essere interessante vedere quanto l’istituzione riesca a modificare i suoi standard in relazione ai tuoi piani e alle tue convinzioni. Al PAC, come detto, ho trovato ampia disponibilità, anche quando ho chiesto loro di realizzare tre sale cinema all’interno dello spazio espositivo. È stata senza dubbio un’esperienza di grande crescita. Ci ho lavorato – potrei dire in maniera incessante – per sei mesi ma è stata comunque il frutto di diversi anni di ricerca nell’ambito dell’art cinema. Arrivavo dall’esperienza di verniXage – una sezione che che avevo ideato e che curavo per il Milano Film Festival– che mi aveva dato modo di incontrare e lavorare con molti artisti che utilizzano le immagini in movimento. Tra i tanti ricordo con molto piacere gli incontri con Carlos Casas, Luca Trevisani, Nathaniel Mellors, Anna Franceschini, Zapruder, Duncan Campbell, Yuri Ancarani, Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi di Invernomuto, Alterazioni video…
Chi sono i tuoi artisti preferiti?(tanto so che non mi rispondi)
Per non lasciare la domanda in bianco e darti totale soddisfazione, direi Gordon Matta Clark, per l’influenza che ha avuto sul mio modo di ragionare e vedere le cose.
Parlando di editoria, che progetti hai e con chi?
Da circa un anno curo per RAWRAW Edizioni la collana Paper Space Collection. Anche questo è un progetto che parte dall’idea di riconsiderare e scatenare delle riflessioni sui possibili formati espositivi ed editoriali. Da una parte il libro è considerato come uno spazio espositivo entro il quale presentare progetti inediti, vere e proprie mostre che si sviluppano sulla superficie cartacea. Dall’altra vengono rimessi in discussione i tradizionali generi dell’editoria d’arte come il catalogo o il libro d’artista in edizione limitata. La cosa buona è che sfruttando i canali distributivi dell’editoria, la mostra diventa immediatamente itinerante, o quantomeno in maniera più semplice rispetto ad una mostra di opere tridimensionali. Ad oggi abbiamo realizzato mostre cartacee di Andrea Romano e di Lupo Borgonovo.
Dove vai a bere e ballare (Dude mi dicono)?
Milano è una città disseminata di bar di grande qualità. Per ogni zona della città potrei citartene almeno un paio. Io però preferisco frequentare posti in cui riesco ad avere anche delle relazioni umane con chi è al di là del bancone, persone che nello svolgere il proprio lavoro non si danno arie da neurologo. Non fraintendermi, mi piace moltissimo bere e bene, e penso onestamente che, oltre ad un servizio sociale fondamentale, i barman svolgano anche un lavoro culturale e di sensibilizzazione importantissimo. Però preferisco quei bar in cui non ci si prende troppo sul serio. Detto questo mi puoi trovare spesso alla Coloniale di Corso Genova perché è un ambiente felice e soprattutto traversale, come solo Milano sa essere, al Cape Town per la gentilezza delle persone che ci lavorano e la sicurezza nella qualità dei cocktail, da Cucchi per la sensazione di essere in una perpetua riunione di lavoro anche dopo il terzo drink, da Frog al Pravda o allo Zink, per i suoi vodkatini. Qualche altra volta mi piace andare anche al Bar Basso o, ancora più di rado, in Segheria da Carlo e Camilla. Diciamo che tendenzialmente rimango comunque in zona sud e frequento posti facilmente raggiungibili a piedi.
A ballare non vado più molto spesso. Anche perché tendenzialmente quando mi capita finisco per fare chiusura senza accorgermene. Il posto che ho frequentato più assiduamente è stato Bomboclaat, il club che era nato nelle cantine di Pergola. Per me rimane una sintesi perfetta tra le dimensioni dello spazio, qualità e forza del suono, calore dell’ambiente e trasporto umano. Credo che sia stato un luogo fondamentale per la città. Tra i locali in attività sicuramente il Dude, perché sono amici da sempre e per la programmazione che è sempre un passo avanti. Al Bruttoposse, come sopra, per una lunga amicizia con GDS e Riccardo (a proposito quando li intervista Zagor?), per l’energia che riescono a generare ogni sera con estrema semplicità coinvolgendo ogni tipologia di individuo. Con loro tra l’altro condivido il progetto CARIB, una serata mensile dedicata al cinema, alla musica e alla cultura giamaicana.
E mangiare? (qua non mi fare il minimale, tu sei un viveur)
Da qualche anno cerco di mangiare molto a casa. Come detto prima, mi piace molto cucinare e la dimensione conviviale che genera. Cucino anche solo per me, però la cosa che preferisco sono i pranzi del sabato o della domenica con persone che vanno e vengono creando una situazione che può protrarsi anche sino a sera.
Quando esco invece sono piuttosto abitudinario: per mangiare cinese riesco a spingermi sino in Porta Venezia per i ravioli fatti a mano di Lon Fon o in Porta Nuova per la trippa fredda di Taiwan. Per mangiare sushi il mio posto preferito invece è Yoshi in via Parini. Per le zuppe di Ramen sono ottimi Osaka in Corso Garibaldi e l’italianissimo Casa Ramen all’Isola. Se ho voglia di cibo tradizionale invece il mio posto preferito rimane La Libera in via Palermo, per la cotoletta e l’ambiente rassicurante.