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Claudia Petraroli

L’arte fotografica non è poi così morta - IV

Scritto da Ilaria Sponda il 11 aprile 2023

Claudia Petraroli. Credits Tiziano Doria

Il modo migliore per ricercare lo state of the art dell’arte fotografica contemporanea è sicuramente incontrare le artistə che ne stanno segnando le direzioni, sia inconsciamente che consapevolmente. Milano pulsa di studi d’artistə e artistə che lavorano nel privato della propria casa (o semplicemente stanza) dato il disagio degli affitti di cui ne siamo tuttə al corrente.
Per questo capitolo della rubrica, ho fatto una chiacchierata con Claudia Petraroli, artista emergente di Teramo ma a Milano ormai da anni. La pratica artistica di Claudia sta venendo sempre più modellata e delineata da teorie transfemministe, queer e studi sociologici, prendendo impulso dall’osservazione del dato reale e della sfera connessa al consumo di massa, per arrivare alla definizione di una dimensione soggettiva e più astratta dell’immagine pubblicitaria e dell’oggetto di consumo.
La pratica artistica di Claudia opera nell’ambito più ambiguo del fotografico: quello pubblicitario, dell’immagine di consumo patinata, iperreale, manipolata e manipolatrice. Quella di Claudia non è solo una ricerca artistica ma anche un percorso personale di introspezione del proprio rapporto con le logiche capitaliste che modellano il mondo in cui viviamo.

Vi è uno sforzo mentale richiesto al fruitore d’arte fotografica di oggi, se no l’arte risulterebbe decoro, o pubblicità.

 

Bigino del tuo percorso artistico: quali sono i focus della tua ricerca e cosa ti muove?

Il mio focus gira intorno ai comportamenti collettivi nella società dei consumi al tempo di internet 2.0: sia nel rapporto con il mondo delle merci che in quello del lavoro che, ultimamente, nei legami amorosi. In particolare, nel primo caso, ho iniziato interrogandomi sui miei comportamenti di consumatrice. Sostanzialmente assecondo i suggerimenti degli algoritmi nelle indicizzazioni delle pubblicità online, sui vari social. Navigo sulle piattaforme e-commerce e scelgo gli oggetti che mi attraggono particolarmente, per lo più accessori femminili. Studio le loro forme. Si tratta di fotografie pubblicitarie, a fondo neutro, distanti, perfette, create per il web. Ridisegno i volumi in 3D e successivamente li traduco in ceramica. Sono forme plastiche prodotte in serie, ispirate soprattutto a strumenti cosmetici e pensati come dispositivi in grado di condizionare i corpi. Parto da una fase puramente digitale di studio delle fotografie e modellazione 3D, a cui segue una dimensione esclusivamente artigianale, in cui i pezzi vengono prodotti a mano.

E qui si torna al tema delle immagini commerciali da cui parte la tua ricerca sugli oggetti di consumo. Tra fotografia, o meglio, immagine, d’arte e pubblicitaria: questi sono i confini tra cui ti muovi. Ci spieghi meglio come mai ti posizioni in questo territorio ambiguo?

Sicuramente lavorare nel mondo della moda come tecnica digitale e ritoccatrice influenza la mia ricerca. In realtà è un ambito di interesse su cui mi sono sempre interrogata, essendo cresciuta negli anni del movimento no global ed essendone stata molto influenzata. Probabilmente il mio lavoro è alimentato da una contraddizione profonda tra il mio attuale ruolo produttivo e la mia coscienza politica. L’immagine pubblicitaria mi interessa perché dà vita a un discorso totalizzante che tocca ogni essere umano, indistintamente, e riguarda non tanto l’aspetto economico della merce, quanto quello metafisico. È questa dimensione spirituale dell’oggetto di consumo a ispirarmi, non in termini marxisti, ma più nel senso di quello che descrive il filosofo Emanuele Coccia nel suo libro “Il bene nelle cose” (2012): mi interessa il desiderio che proviamo nei confronti di oggetti sempre nuovi, per le loro forme, i loro colori; la sensazione di benessere che infondono. Che non dipende né dalla loro funzionalità, che siano cioè pensati per uno scopo, né in quanto prodotto del lavoro umano. È questo seme di felicità che provo a formalizzare nelle mie opere, che è anche connesso a un’idea di bello e che cerco di condensare in una forma sintetica, astratta e vagamente arcaica.

Ormai due anni fa sei stata parte del progetto di ricerca di Mauro Zanchi e Sara Benaglia denominato “Metafotografia”, che è stato una ricognizione nel panorama italiano di quellə artistə che come te sconfinano e reinventano il medium fotografico. Cosa significa approcciarsi alla fotografia in modo metafotografico?

Forse può voler dire considerare la fotografia uno strumento di ricerca, un passaggio di forma, piuttosto che un fine. Probabilmente alcuni dei miei lavori passati possono essere considerati degli sconfinamenti del fotografico in altri territori, ma penso che soffermarsi eccessivamente attorno ai discorsi sul medium abbia degli effetti controproducenti, ci rinchiude in delle categorie troppo strette. Credo che la chiave metafotografica della mia ricerca risieda più nel metodo e nell’approccio, che in una riflessione sul medium vera e propria. Per me la fotografia è un punto di partenza, è il modo in cui penso, per fotogrammi, ma successivamente le idee trovano spesso forme diverse perché non riesco a immaginare di chiudermi in un’unica forma espressiva.

Da curatrice e ricercatrice, mi interessa capire le condizioni contemporanee da cui la produzione artistica dipende – in questo caso specifico a Milano o comunque in Italia in generale. Usare il termine “produzione” è abbastanza controverso in quanto denota l’arte come un bene di consumo – definizione che comunque non vuole ridurre l’atto artistico a un semplice prodotto di consumo. Come definiresti la tua produzione artistica? Da cosa è limitata?

Innanzitutto, vedo nell’arte un bene di consumo al pari di qualsiasi altra merce. Ciò che la distingue dagli altri oggetti, come scrive pure Coccia nel testo sopracitato, è esclusivamente il fatto che attribuiamo alle opere il valore che solitamente diamo alle persone: pensiamo a quello che sta succedendo con l’ondata di stigmatizzazione verso lə attivistə di Ultima Generazione. Il problema ha più a che fare con il giudizio negativo che connota le merci, che però, innegabilmente, sono tutto il nostro mondo, tutto ciò per cui agiamo e ci muoviamo. 

La mia produzione artistica è lenta: in parte è un modo di lavorare, ma deriva anche dall’impossibilità di concentrare tempo ed energie nella ricerca, oltre che ovviamente dai costi di produzione, che condizionano particolarmente i progetti più ambiziosi. Per lə artistə non appartenenti alla classe privilegiata l’arte non può essere un lavoro a tempo pieno, ci si deve impiegare in altri lavori. Che non è un problema in sé, anzi, credo che saper rimanere legate alla vita sia una ricchezza. Ma per la maggior parte, il mestiere dell’artista è economicamente insostenibile. Questo dipende anche da un sistema che ha delle responsabilità precise, ma il silenzio quasi omertoso che domina questi ambienti gioca un ruolo non indifferente, per cui conviene mantenere un’immagine della creazione artistica come di un momento generativo senza traumi o grandi fatiche materiali, evitare i conflitti. D’altra parte tutti questi discorsi spesso entrano a far parte del mio lavoro, da quando ho smesso di negarli.