In pieno centro a Lodi ci aspetta Edoardo Caimi: quello che era da sempre il suo luogo, la sua città con la sua campagna, dove aveva trovato il suo spazio “sicuro” costituendo anche un ambiente di casa-studio, oggi è anche una bellissima fonte di ispirazione e di ricerca, nonché luogo di lavoro. Pendolare al contrario, quotidianamente Edoardo viaggia per lavoro nella direzione opposta alla massa: ritorna in pianura, nei boschi, a ricercare materiali, sonorità e estetiche che si riflettono poi in tutta la sua produzione scultorea, musicale, installativa e grafica. Tribale, rave e rurale sono elementi caratterizzanti la sua poetica che, in maniera sincera e spontanea, vanno a costituirsi e ad assemblarsi tra loro portando gli strascichi di tutto ciò che è esperienza.
Ti sei trasferito dalla pianura alla città. I boschi, la natura, gli edifici abbandonati hanno iniziato ad essere ridimensionati e ricontestualizzati. Com’è il tuo rapporto con la natura e le intersezioni urbane? E qual è il tuo ricordo rispetto a questo cambiamento della tua vita?
Fin da bambino sono cresciuto circondato da boschi e automaticamente sono diventati il mio parco giochi. Ho vissuto una bellissima infanzia sotto quel punto di vista. Quando avevo undici anni con la mia famiglia ci siamo trasferiti a Lodi e me lo ricordo come un cambiamento traumatico. Con gli anni ho imparato a innamorarmi della pianura, dei suoi paesaggi, dei campi, delle cascine, dell’Adda, dell’odore del letame che per me è “casa” e soprattutto della nebbia, che qui è una cosa bella seria. Le giornate di nebbia qui sono momenti incredibili, quando tutto diventa bianco e non vedi niente. Il tempo si ferma e sembra di entrare in una dimensione parallela. Il mio lavoro ha completamente assorbito tutti questi aspetti. Le cascine e le fabbriche abbandonate rientrano in questo paesaggio e per me sono elementi importanti anche perché ho da sempre una tendenza a esplorare: dai boschi, come accadeva da bambino, ai luoghi dismessi che andavo a cercare con i miei amici per fare i graffiti o per frequentare i rave.
Da lì, da quelle atmosfere, vivono e prendono forma i miei lavori. Il mio lavoro è un’evoluzione di quello che ho iniziato a fare facendo graffiti, e si è evoluto in quello che è adesso. Adesso vivo a Milano, ma ho mantenuto lo studio a Lodi, faccio il pendolare al contrario. L’unico problema del mio studio è che, essendo in pieno centro storico, le operazioni di carico e scarico sono un disastro!
Abbiamo parlato di esplorazione, anche la nebbia crea un divisorio, quasi un separé oltre cui bisogna andare. L’esplorazione ti ha portato a vivere questi luoghi abbandonati, che sono tradotti nel tuo lavoro sia riprendendo lo spazio, sia “rubando” elementi e oggetti trovati all’interno di essi. Questi sono frammenti e materiali della memoria.
Il mio lavoro prende vita nelle atmosfere dei luoghi abbandonati in cui c’è un forte contrasto tra la natura e il cemento. Non so se vi è mai capitato di vedere una fabbrica abbandonata nella Pianura Padana: sembrano dei templi di cemento in mezzo ai campi. Parto da lì, da quei frammenti di esperienze personali vissute esplorando e dalle suggestioni che questo mi provoca: la malinconia di storie dimenticate, di memorie perdute. Poi, attraverso questo immaginario, quello che faccio è un po’ re-immaginare l’era della catastrofe all’interno di cornici survivaliste, che poi sono le immagini che questi luoghi mi hanno evocato fin da subito.
Il tema della catastrofe e l’impatto che l’uomo ha sulla natura, vivendola e poi abbandonandola, sono un tema ampio. L’uomo sfrutta la natura e poi ne subisce le conseguenze: si sente al centro, quando dovrebbe essere un convivente dell’ambiente che lo circonda, un coinquilino che se ne prende cura. Il legame che tu vai a creare nell’affiancare l’immagine dell’uomo a quello della natura, come si sviluppa?
La natura è sicuramente un elemento che si presenta nella mia ricerca, ma avviene in maniera del tutto spontanea. Il mio lavoro racconta le sensazioni che ho guardando ciò che mi circonda, senza pensarci troppo. La sensazione che mi pervade è sempre quella di avvicinarsi a un sogno apocalittico di cui pochi si rendono conto. Bisognerebbe tornare in contatto con ciò che è reale, con le esperienze reali. Forse sono i social e i media che ci fanno perdere empatia, sia verso gli umani che verso la natura.
Artificio e naturale: l’uomo che agisce e diventa fulcro e quasi unico soggetto – quasi narciso – delle sue attenzioni senza prestare ascolto a ciò che lo circonda, alla natura. Dove ci porterà questo modo di vivere? Come vedi il tuo ruolo di artista in relazione a queste tematiche così delicate?
Il mio ruolo è quello di immaginare in maniera poetica facendomi suggestionare da questi temi e da queste situazioni che vivo e che viviamo. Non ho neanche la volontà forse di mettermi a fare un discorso diretto di educazione – si vede nei miei lavori.
La tipologia di elementi che utilizzi a quale estetica appartiene?
Il mio è tutto un lavoro fatto con materiali che riprendono quegli elementi che esistono nel paesaggio della Pianura Padana. All’interno di questi materiali non vi è alcun tipo di significato nascosto. Di recente, per esempio, ho lavorato con lastre metalliche ondulate per creare un lavoro presentato da Turbo Milano, in collaborazione con la galleria The Address. Si tratta di un campanile che fa anche da cassa, emette dei rintocchi e muscia hardcore. Estraniarlo dal suo contesto l’ha sollevato da ogni tempo, fermo e immobile in chissà quale dimensione o era.
Sto realizzando anche una serie di lavori che partono da un composto di terra, molto argilloso, che raccolgo direttamente nei boschi dove sono cresciuto. È una terra molto modellabile con la quale creo dei paesaggi aridi, bruciati, visti dall’alto. Poi spruzzo un diluente nitro e gli do fisicamente fuoco! Il punto di vista è quello di un drone, come se stessi volando sopra a dei luoghi in cui non c’è più acqua. La speranza ovviamente è quella di non diventare un Nostradamus contemporaneo ma di rimandare solo all’immaginazione, e non a una verità del futuro.
Sia a livello visivo che a livello audio e di suono, l’esperienza che si crea attorno al tuo lavoro è unica e ben definita. Ce ne puoi parlare e da dove provengono le materie/i materiali che usi?
Gli elementi che utilizzo sono quasi sempre recuperati, sono scarti industriali o naturali che poi, cortocircuitando, creano le mie opere. Quello che ricerco mettendoli insieme sono degli oggetti che abbiano delle auree occulte, che si ispirano al tribale. Hanno quasi delle valenze sciamaniche. È una cosa che faccio quasi d’istinto. Non inizio mai un’opera avendo un bozzetto o uno studio preciso e quindi la mia è un’attitudine riconducibile al gioco, come fare dei puzzle. Le opere rimangono incomplete anche per anni, per questo il mio studio è un casino: sono tutti pezzi e frammenti che poi vengono anche abbandonati e recuperati, più volte, e alla fine magicamente si trasformano in qualcosa. Mi faccio trasportare dal lavoro e mi piace che sia misterioso e che rimanga avvolto nel mistero anche per me.
Penso al mondo dei rave che si rifà a quella improvvisazione e a quella spontaneità che poi caratterizza il mio processo di lavoro: è un ambiente da cui prendo molti elementi come le casse, le borchie, le teorie di Hakim Bey e le TAZ (Zone Temporaneamente Autonome) sono dei momenti che secondo me servono, soprattutto in questo periodo, e mi piace ricercarli.
Le credenze ancestrali e i riti tribali vengono riproposti nei tuoi lavori sotto diverse forme, dalla performance alla scultura, con spesso l’inserimento di elementi audio. Suonavi in una band giusto? Il tuo periodo da musicista come si ripropone all’interno della tua ricerca?
Anche in questo caso è un’esperienza personale che entra a far parte del mio lavoro: prima di arrivare a una ricerca artistica visiva ho sempre suonato in gruppi punk-hardcore e metalcore, andavo ai rave e ascoltavo la techno e la musica elettronica. E tutto questo nei processi di ricerca e formalizzazione ritorna. Era da un po’ di anni che non suonavo più, ma di recente sto provando a sperimentare con la performance, vorrei provare a spiegare il mio lavoro attraverso il suono, evitando di farlo con le parole ma in maniera più diretta. Quello che sto provando a fare è creare dei paesaggi sonori che vadano a contestualizzare il mio lavoro portando dentro il personaggio dell’ultimo uomo che è sempre presente ma non si vede. È un uomo che ha a che fare con memorie perdute del passato o del futuro e che, come un rabdomante, cerca di raccogliere ricordi e comunicare con qualcuno che non sa neanche lui chi è.