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Erik Avolio

Lo chef della cucina di quartiere di Made in Corvetto

quartiere Corvetto

Scritto da Eric Fiorentino il 14 luglio 2020

LaCittàIntorno è il programma di Fondazione Cariplo di intervento partecipativo sul territorio, che coinvolge in prima persona gli abitanti dei luoghi individuati. Un processo di rigenerazione urbana che valorizza la multidisciplinarietà e lavora sui tempi medi, esprimendo una policy sulle città e sulle periferie, messe al al centro di una nuova geografia. Trasformandole in poli attrattivi per le reti e le comunità.
Un progetto che mira a favorire il benessere e la qualità della vita nelle città. Promuove il protagonismo delle comunità locali attraverso attività culturali, artistiche e di dibattito, di coesione sociale e di sviluppo economico, che sappiano parlare anche all’esterno. Facendo sì che i quartieri diventino teatro per pubblici diversi, provenienti anche da altre aree urbane.

Il Corvetto è stata uno dei primi quartieri scelti per applicare queste idee. Uno dei primi obbietti raggiungi è stata l’apertura del PuntoCom: punto di comunità, è un centro di gravità aperto e plurale, polifunzionale. Un luogo dove potersi incontrare per usufruire di servizi e partecipare ad attività culturali e formative, orientate al lavoro, allo scambio e alla produzione di idee e di innovazione.
Il PuntoCom di Made in Corvetto è in una posizione nevralgica e in un contesto strategico, e cioè all’interno del mercato comunale coperto di Piazzale Ferrara, luogo di passaggio e di convergenza di diverse anime e interessi presenti a livello locale.

Il modello del “mercato ibrido” vede alcune funzioni legate al cibo partendo da quelle commerciali (vendita, produzione o trasformazione, somministrazione) coesistere con funzioni di natura culturale e aggregativa e con altri servizi di natura sociale (come la lavatrice, il forno condiviso, la ciclofficina) contribuendo a migliorare le performance del quartiere sia dal punto di vista della sua attrattività commerciale che della sua coesione sociale.
In questo quadro, 4 stalli sono stati assegnati alla cooperativa sociale La Strada ha dato vita a una cucina di comunità e a un laboratorio culturale con angolo ciclofficina dove si realizzeranno workshop, eventi, attività collettive ad alto impatto sociale in collaborazione con cittadini e associazioni del territorio. Lo chef della “cucina di quartiere” è Erik Avolio che ci racconta la sua storia in questa intervista.


Chi sei? Da dove vieni? Cosa fai nella vita?

Ciao mi chiamo Erik Avolio e sono nato l’8 aprile 1990 a Milano. La città dove per lavoro si sono trasferiti i miei genitori, mamma austriaca e papà napoletano, e dove si sono conosciuti. Nella vita faccio il cuoco, lo chef, da più o meno 10 anni. Ho affrontato il mondo del lavoro molto presto, già a 14-15 anni facevo dei lavoretti nei bar, caffetterie e nelle cucine come aiutante.

Dove vivi a Milano?

Sono tornato per comodità e necessità a vivere in piazzale Corvetto, la zona in cui sono cresciuto, dopo aver abitato altre zone di Milano. Non è stato facile crescere nel quartiere soprattutto negli anni più duri, non era com’è adesso e non è come la gente crede che sia. La persone sono come qualsiasi altra periferia di Milano, chiaramente nascere e crescere in una zona come questa ti insegna a vivere e stare al mondo prima. In Corvetto non ci sono cattive persone, sono tutti bravi ragazzi, ma purtroppo in molti casi sei costretto a vivere in condizioni problematiche e non è mai semplice gestirle. Io ci sono passato e so cosa vuol dire essere un bravo ragazzo e avere difficoltà che ti possono portare ad avere delle grane in strada sostanzialmente. Il quartiere si viveva notte e giorno in strada ed è sempre stato un ambiente particolare. Conosco molte persone della comunità e ci credo nel miglioramento del Corvetto.

Qual’è il tuo primo ricordo legato alla cucina?

Io ho sempre pensato che il lavoro nella settore della ristorazione mi potesse permettere di vivere da grande. Era l’unica visione che avevo perché mi piaceva veramente tanto mangiare da piccolo. Aiutavo sempre i miei genitori a preparare da mangiare in casa, apparecchiare, sparecchiare e quindi lo vedevo come un’abitudine non come un lavoro. Mi piaceva fare quello e pensavo fosse utile per me intraprendere quella direzione nonostante tutte le difficoltà del caso, perché non è stato semplice. A scuola ho sempre avuto un sacco di casini, ma me la sono saputa cavare bene nell’arco della vita.
Quindi il mio ricordo legato alla cucina va sicuramente ai miei genitori, all’apprezzamento che avevano loro per quello che cucinavano, per Napoli soprattutto e la cucina mediterranea, la mia preferita. Ora non ho visioni di cucine fusion, voglio restare tradizionalista nonostante la mia doppia origine.

Com’è stata l’esperienza scolastica alla Galdus?

La mia esperienza in Galdus è stata un po’ travagliata. Prima scelsi di iscrivermi in un’altro istituto e non è andata bene, dopo 6 mesi mi sono dovuto trasferire alla Galdus. Ho un ottimo ricordo e sicuramente mi hanno salvato non la vita, ma più o meno, e quindi ho un debito verso la struttura per come mi hanno cresciuto in quel periodo. È una scuola importante che ti segue in diversi aspetti della crescita, non solo a livello scolastico, soprattutto su quello umano che è fondamentale per dei ragazzi che abitano in periferia e non hanno ancora ben capito qual’è il loro posto nel mondo. Quando la facevo io eravamo 250 ragazzi tutti di zona, ora ha più di mille alunni e una seconda sede. La Galdus è stata veramente importante, e lo è stata per molti ragazzi come me, per trovare la propria strada. Chiaramente non c’erano degli scenari normali, era una scuola di “disadattati” e di periferia, tutti casi particolari con dei problemi sociali, economici o culturali, fattore che assieme all’appartenenza con la zona ci ha fatto diventare una grande famiglia.

Dopo gli studi hai avuto diversi banchi di prova per affinare le tue abilità, fino ad arrivare al Carlotta, ci racconti i primi sviluppi della tua carriera per diventare chef?

Dopo la scuola ho iniziato a fare qualche lavoretto, sono andato un po’ in Sardegna e poi quando sono tornato a Milano, mi era così tanto piaciuta la cucina isolata che ho scelto di lavorare in un posto che riproduceva quel metodo tradizionale italiano e mediterraneo, Carlotta. Il ristorante mi ha dato la possibilità a 20 anni di lavorare nella sua cucina e, dopo alcuni problemi di ambientamento, sono riuscito a dirigerla per quasi una decade. Lì mi sono saputo costruire una vita migliore: ho imparato a gestire le persone, a sviluppare rapporti umani in maniera diversa, a parlare con clienti provenienti da altri ambienti lavorativi. Manager, avvocati, commercialisti e il lavoro ti da la possibilità di mettere in mostra la persona che sei, quindi entrare in contatto con queste professionalità ti apre anche altri mondi e altre visioni sulla vita. Ringrazio il Carlotta per aver avuto fiducia in me in quegli anni, ma ovviamente è stato un periodo di tanto sacrificio, non mi sono praticamente mai assentato: ho sempre lavorato notte e giorno, festivi e non.
Ora devo trovare una mia strada personale nell’ambiente relativo a cosa voglio fare da grande perché non è semplicemente fare il cuoco, dietro ci sono altri pensieri. Puoi essere imprenditore, quindi avere un’attività tua o più di una, o entrare nel sociale come ho fatto che mi interessa molto. Aiutare il prossimo, sapendo da dove vengo e cosa si prova ad essere in difficoltà.

Cos’è Made in Corvetto? Cosa significa Cucina di quartiere?

Made in Corvetto è una riqualifica della nostra zona legata alle persone, non solamente agli interessi, quindi quello che sto facendo è anche dare l’esempio ai ragazzi di quartiere. Con il lavoro e il sacrificio si possono ottenere risultati, si può fare del bene agli altri, ci si può tirare via qualche sfizio personale. Do l’esempio anche distribuendo i pasti alle persone in difficoltà del mio quartiere, un pranzo sano e completo, facendo provare anche un po’ quello che facciamo. Utilizziamo delle tecniche di cucina abbastanza avanzate. Nessuno fa quello che facciamo noi in zona. Il concetto di “cucina di quartiere” è proprio quello di aiutare e cercare di dare una scossa all’ambiente.

Che cucina proponi con Fabio?

Io e Fabio siamo andati a scuola insieme, nella stessa classe, e quando La Strada mi hanno proposto il progetto ho deciso di chiamare un ragazzo che veniva con me alla Galdus. Fabio è molto bravo, propone una cucina vegana e vegetariana, e uniti volevamo appunto fare verdure e pesce nella nostra maniera.

Rimanendo sempre nell’ambito culinario, qual è un’altro luogo simbolo di quartiere?

Il posto che ho frequentato più di tutti da giovane che è uno dei punti di riferimento di Corvetto è sicuramente Gobbato Bakery, un panettiere molto famoso in una zona particolarmente difficile che è via Ravenna. Qui tutte le compagnie si trovavano a mangiare focacce, pizze, pasticcini, bere Estathè. Ci siamo sempre trovati bene e ancora oggi c’è, nonostante le difficoltà è riuscito ad andare avanti anche lui. Se devo citarti un posto come punto di ritrovo a livello culinario per tutti è Gobbato.

Se dovessi fare un piatto, ispirato a Corvetto, come sarebbe?

Qui in Corvetto ce ne di tutte le salse, ma veramente tutte. Citando sempre la cucina mediterranea, ho pensato a uno spaghetto ai tre pomodori: pomodoro passata, pomodorino fresco e crema di pomodoro frullato. Un piatto che si ottiene lavorando singolarmente i tre pomodori e poi unendoli con lo spaghetto, una ricetta che ho inventato 3 o 4 anni fa. Il titolo sarebbe “Lo spaghetto in tutte le salse” appunto per richiamare ciò che amo del Corvetto, la sua diversità e lo ringrazio per quello che mi ha insegnato.